Nell’antichità, come avrebbe potuto essere l’otto di marzo? Di aggressioni alle donne, purtroppo, è satura la storia (con la storia della letteratura). Il tempo tramanda racconti di donne maltrattate, costrette a fare i conti con il loro “patriarcato” e, per le regole del contrappasso, di eroine che lottarono nella speranza – forse illusoria – di conquistare libertà e pari diritti con gli uomini.
Qualcuna di queste protagoniste può essere considerata l’antesignana della lotta di emancipazione femminile? Per certo, diedero vita a storie straordinarie, spesso tragiche e talmente avvincenti da incitare i migliori poeti a tramandarne la memoria.
La prima e, forse, la più grande è Antigone. Mitica figlia di Edipo, protagonista della tragedia di Sofocle che ambientò il racconto nell’antica Tebe. La città era contesa dai due fratelli di Antigone, Eteocle e Polinice che, durante l’assedio, si uccisero a vicenda: Eteocle in difesa della città, Polinice all’assalto. Il nuovo re Creonte, loro zio, rifiutò la sepoltura di Polinice perché, avendo impugnato le armi contro la patria, doveva essere considerato un traditore e, quindi, indegno di sepoltura. Per questo, ordinò che il cadavere venisse abbandonato nella campagna, preda dei cani. Antigone disobbedì allo zio-re e, di notte, escì dalle mura per cospargere di terra il cadavere del fratello. Venne arrestata e il tiranno la condannò a essere murata viva in una caverna. Punizione tremenda per la quale Antigone non si pentì né chiese pietà. Anzi, rivendicò le sue azioni come rispettose delle leggi universali. “Non Zeus ha emanato questo editto né stabilì tali leggi tra gli uomini. Io non pensavo che un mortale potesse infrangere le leggi non scritte e immutabili degli dei: poiché esse non sono né di oggi, né di ieri, ma vivono eterne, e nessuno sa da quando esistono”. Con Antigone – commenta Albin Lesky – Sofocle esalta la legge che proviene dalla sfera divina e non ha la sua origine nella natura degli uomini”.
“Con un cuore amante e un coraggio eroico – la ricordano Simone Weil e Carlo Carena – si oppone alle leggi del suo paese e al capo del suo Stato, per cui ovviamente è messa a morte, tutta sola senza nessuna solidarietà.”
Andromaca, – racconta Omero – vedova di Ettore, vide gettare il figlioletto giù dalle mura dal nemico entrato in città a saccheggiare incendiare uccidere deportare come schiave le donne. Ifigenia fu sacrificata agli dei perché propiziassero la guerra di troia. Ma, più generosi gli dei degli uomini, Artemide la sostituì con una cerva e l’accolse fra le sue sacerdotesse. E Niobe, punita dalla dea invidiosa con lo sterminio dei suoi quattordici figli di cui era orgogliosa, impietrì di dolore e fu immortalata – nel marmo – da Prassitele.
Ancora: Medea abbandonata dall’uomo che amava si lasciò morire e Didone perdutamente – e inutilmente – innamorata di Enea, si suicidò. Commenta Virgilio: “Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt”. E Augusto Rostagni traduce: «la storia è lacrime, e l’umano soffrire commuove la mente».
Possono passare secoli ma gli atteggiamenti non cambiano. Nel Medioevo, tra le tante figure comparse nella storia dell’umanità Dante Alighieri ricorda due donne in particolare: Francesca da Rimini e Pia de’ Tolomei. Con Pia de’ Tolomei, in soli sei versi – commenta Carlo Tommaso Dragone – emerge “una delle figure più femminilmente soavi della poesia e dell’arte di tutti i tempi”. Dice la donna al poeta: “Ricordati di me che son la Pia”. A ucciderla – o a farla uccidere – fu il marito – Nello dei Pannocchieschi – un nobile che, per risposarsi la contessa Margherita Aldobrandeschi, aveva bisogno di disfarsi della prima moglie. Ne dette conto un cronista del tempo. “Essendo ella alle finestre d’un suo palagio – annotò – messer Nello mandò un suo fante che la prese pe’ piedi di rietro e cacciolla a terra dalle finestre in quella valle profondissima, che mai di lei non si seppe novelle”.
E, infatti, Dante chiosò con “disfecemi Maremma”. Francesca è la vittima dell’amore passionale, uccisa con l’amante dal marito che la scoprì “in flagrante peccato”, senza possibilità di pentirsi e salvarsi.
Per questo, nella Divina Commedia, sta nel girone dei lussuriosi nell’inferno. Fu vittima della passione d’amore: di quell’ “amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende …ch’a nullo amato amar perdona … e condusse noi ad una morte”. Dante – ma, dopo di lui tanti altri, tra cui il Foscolo – provò intensa pietà per la donna che, per sua natura, cedette alla passione dell’innamoramento seppure illecito. C’è chi – come Daniele Mattalia – ha visto nella pietà di Dante “una sorta d’inconscia protesta contro la condanna”.
Lo spirito di queste tragedie d’amore fu modello per Andreina “La bella Ossolana” di Carlo Calcaterra e per l’Evellina de “Il bacio fatale” dell’avvocato Giovanni Battista Bazzoni, ambientato nel piccolo castello che sorgeva in riva al Toce alla Masone dei Templari di Vogogna. E poi Giulietta e Desdemona di Shakespeare a concludere una dolente rassegna sulla quale ogni animo sensibile ha il dovere di riflettere. Per dolersi.
Raffaele Fattalini