Un filo ideale lega il 24 marzo di ogni anno al 24 marzo 1980, quando per la prima volta si è celebrata una giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri. Una ricorrenza, divenuta tradizionale, che ha tratto ispirazione dal martirio di mons. Oscar Arnulfo Romero, Arcivescovo di San Salvador.
Ogni martirio, ogni uccisione, ogni assassinio porta con sé il sapore amaro della prevaricazione, dell’ingiustizia, dell’arbitrio, ma fa anche risuonare le parole con le quali Gesù, dall’alto della croce, si è rivolto al Padre: “Perdonali perché non sanno quello che fanno”. Loro, i suoi crocifissori, i suoi bestemmiatori, i suoi negatori. Così è Gesù, e così devono essere i suoi discepoli. Nella prospettiva evangelica il vero potere è quello del Dio crocifisso: un potere che vuole l’alterità dell’altro fino a lasciarsi uccidere per offrirgli la risurrezione. Perciò il potere assoluto s’identifica con l’assoluto dono di sé, con il sacrificio che comunica la vita agli uomini e fonda la loro libertà. Per “follia d’amore”, colui che è la Vita in pienezza diventa per noi la vita al cuore della morte (Olivier Clément). Un dio, dunque, che non può essere negato, che non può essere “ucciso” non è dio, perché l’amore che non può essere negato non è amore. La verità dell’amore consiste, infatti, nella decisione dell’amante di non imporsi all’amato per essere scelto nella sua libertà, perché l’unico, vero contenuto della libertà, tanto dell’amante quanto dell’amato, sta in un amore senza pretese e senza difese. Libero.
Non potremmo, allora, intendere il martirio come l’estrema, radicale accettazione dell’altro quale forma dell’ancora più radicale accettazione della verità di Dio? Gesù, infatti, non salva l’uomo perché muore, ma perché, morendo, ribadisce che Dio è padre e che quindi l’uomo continua a essergli figlio. Non è, infatti, la morte che fa vivi, bensì l’amore, e l’amore è prima di tutto “spazio liberato per l’altro”.
Alla memoria dei missionari martiri, quest’anno, la nostra Diocesi è chiamata a unire il ricordo di un giovane prete, quel don Giuseppe Rossi, la cui beatificazione si terrà, in duomo, domenica 26 maggio. Tutto si tiene. Il lontano e il vicino, il remoto e il prossimo. Perché la testimonianza non conosce i limiti di spazio e di tempo. È vita che si rinnova perché diventi alimento per ciascuno, per tutti. Vorrei concludere con un passaggio del Testamento spirituale di padre Christian Marie de Chergé, priore del monastero trappista di Nôtre Dame dell’Atlas, ucciso nel 1996, in Algeria, con altri sei confratelli. Un testo che considero uno dei vertici della spiritualità cristiana contemporanea. Scrive: «Se mi capitasse un giorno d’essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a quel Paese. Che essi accettassero che l’Unico Signore di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale. Che essi pregassero per me: come essere degno di una tale offerta? Che essi sapessero associare questa morte a tante altre, ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza e nell’anonimato.
La mia vita non ha più valore di un’altra. Non ne ha neanche meno. In ogni caso non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca. Venuto il momento, vorrei avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nello stesso tempo di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito. Non potrei auspicare una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo. Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che questo popolo che amo sia indistintamente accusato del mio assassinio. Sarebbe un prezzo troppo caro per quella che, forse, chiameranno “grazia del martirio”, il doverla a un algerino, chiunque egli sia, soprattutto se dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l’Islam. […] La mia morte, evidentemente, sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo o da idealista: “Dica adesso quel che ne pensa!”. Ma costoro devono sapere che sarà finalmente liberata la mia più lancinante curiosità. Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti dal dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze.
Di questa vita perduta, totalmente mia, totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta interamente per quella gioia, attraverso e nonostante tutto. In questo Grazie in cui è detto tutto, ormai, della mia vita, comprendo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di questa terra, accanto a mia madre e a mio padre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, centuplo acxcordato secondo la promessa! E anche te, amico dell’ultimo minuto, che non sapevi quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo Grazie e questo ad-Dio profilatosi con te. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in Paradiso, se piacerà a Dio, nostro Padre comune. Amen! Insc’Allah».
Don Massimo Casaro, direttore del Centro Missionario della Diocesi di Novara
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