Uno dei grandi storici del trascorso secolo, Marc Bloch, faceva iniziare il suo fondamentale e non concluso libro sul fare storia (Apologia della storia o Mestiere di storico), con la domanda: “Papà, spiegami a che serve la storia”. Frequentemente capita che ci si interroghi sul senso e sul significato della storia e soprattutto del suo studio. A cosa serve la storia? La domanda è ricorrente. A volte è una di quelle domande di comodo, posta più per pigrizia o per auto-giustificazione che per seria riflessione epistemologica; tuttavia, una domanda che non va disprezzata, qualunque sia il motivo che la fa sorgere: l’istanza è seria in sé. La domanda è dunque legittima oltre che abituale. Non sempre però le risposte ci appaiono del tutto convincenti, anche se, singolarmente considerate, contengono una parte di verità.
Dall’antica “Historia magistra vitae” al più moderno “Conoscere il passato per comprendere il presente”. Elementi importanti di verità – sempre se non si voglia scadere nel porsi a giudici del passato, una funzione pseudo-moralizzatrice e catartica di tanti improvvisati Tribunali della Storia – elementi importanti, ma forse non ancora sufficienti a far scaturire quella molla necessaria per intraprendere l’avventura della conoscenza storica.
Una frase di Jean Vanier, maturata in tutt’altro contesto, mi ha profondamente colpito, facendo come da catalizzatore, dando voce ed espressione a qualcosa che già percepivo. Egli si riferisce all’attenzione che dobbiamo ad ogni persona, particolarmente a chi è stato profondamente ferito dall’esistenza: “Tu sei Qualcuno! Raccontami la tua storia!”
Credo sia una frase illuminante e vera nelle varie dimensioni della vita: non possiamo dire di interessarci di una persona, né tantomeno di amarla, se non ci interessiamo alla sua storia, se – quantomeno – non siamo disposti ad ascoltare la sua storia, o ciò che di essa vorrà o potrà narrarci.
“Mi interessi: narrami di te”, oppure, “Ti voglio bene: mi interessa la tua storia”. Non sarebbe verità se questo non avvenisse. Non potrei dire di voler bene a una persona ignorandone o rifiutandone la sua storia.
Proviamo ora ad allargarne il senso: lo stesso possiamo dire dell’uomo in genere, di un popolo, di un territorio, di un gruppo, ecc. La strada della storia è vista allora come interessamento appassionato dell’uomo, nelle sue molteplici declinazioni.
E come la storia di una persona non sempre e necessariamente, mi verrà rivelata in maniera coerente ed esaustiva, anzi frequentemente in modo indiretto, frammentario, confuso, così anche la storia in generale seguirà lo stesso percorso, nel cercare di cogliere tutti quei segni rivelatori che possono essere utili e che gli studiosi chiamano fonti.
Ancora Marc Bloch delinea lo stesso atteggiamento fondamentale dello storico con una metafora suggestiva: “Il bravo storico è come l’orco della fiaba. Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda”. Lo storico-orco è il cacciatore onnivoro di dati, di tracce, di segni e testimonianze. La ricerca storica, dunque, come figlia di una straordinaria passione, che può essere declinata attraverso varie similitudini, tra le quali io preferisco quella sopra delineata, dell’innamorato.
Dimenticare la storia o dichiararne la morte o il ridurla a semplice operazione meccanica (la cattiva storia a volte insegnata come fosse un manuale di cronologia), costituisce in realtà una grave minaccia al futuro del mondo, ogni giorno sempre più avviluppato nelle reti di un soffocante tecnicismo, che rischia di farci cadere in una barbarie, sempre più dimentica dell’inestimabile ricchezza dell’humanitas.
La consapevolezza e la conservazione della dignità della persona umana – una conquista faticosa e, come i doni più preziosi, custodita in fragili cocci – va costantemente difesa con una cultura dell’umano, che non si lasci soffocare dalle sia pur utilissime, e per certi aspetti indispensabili, acquisizioni tecnologiche.
Un tecnicismo invadente e una tecnocrazia onnicomprensiva metterebbero in seria discussione tutta una serie di postulati che permettono la piena valorizzazione della persona, rischiando di rendere improponibili certe domande, come il problema della sofferenza, della morte, della trascendenza; improponibili, in quanto non traducibili nell’unico alfabeto della tecnicizzazione esasperata, mortificando e mutilando in questo modo l’uomo.
La storia, in quanto ricerca e narrazione di eventi, come capacità altamente simbolica di trasfigurare il reale e quindi di dargli un senso, deve ancor oggi essere un punto di riferimento etico e civile per affrontare le scelte del presente e del futuro.
Don Paolo Milani, direttore dell’Archivio storico della Diocesi di Novara