Ci sono incontri che cambiano il futuro di una persona. Quando succede, è perché chi si incontra illumina aspettative inconsapevoli, permette nuove significazioni, svela contraddizioni e incertezze. Quello con Eugenio Borgna, poeta dell’anima e per questo uomo di cura della sofferenza, è stato per me uno di questi incontri. Incontro unico, prezioso e decisivo, declinato nella profondità dell’affetto e nella passione per la cura.
È stato più di quarant’anni fa, io studente di medicina in crisi dentro a un corso di laurea arido e traditore delle mie passioni umanistiche, lui primario del Servizio di Psichiatria di Novara, tra i primi esempi in Italia di quella psichiatria post manicomiale inaugurata dalla rivoluzione di Franco Basaglia. Quella che, se non avesse in seguito ceduto alle sirene delle scienze mediche e del potere, sarebbe diventata la più grande delle psichiatrie.
Era l’inizio degli anni Ottanta (il Novecento è stato il secolo di Borgna, straniero nel terzo millennio della Tecnica e delle Neuroscienze), quando lessi un suo articolo sulla rivista “Medicina e Morale”: mi si aprì un mondo! La psichiatria di Eugenio Borgna, ispirata alla Fenomenologia di Jaspers e di Binswanger, nutrita dalle letture filosofiche di Husserl e di Heidegger, poneva al centro i vissuti interiori del malato, i suoi modi di vivere soggettivamente il tempo, lo spazio, le relazioni con l’altro. Il malato veniva prima della malattia; questa non era deviazione dalla norma, ma modo di essere al mondo con significati propri, altri da quelli comuni. Capii che la strada della terapia poteva conciliarsi con il mio retroterra umanistico e che la psichiatria di Eugenio Borgna era in grado di irrigare il deserto dei miei studi medici. Lo volli incontrare di persona in vista della tesi di laurea e, da allora, i nostri contatti non si sono mai interrotti, anche quando, anni dopo, mi indirizzai alla psicoanalisi.
Come Basaglia, Borgna sapeva che per dare fondazione umana e culturale alla psichiatria occorreva riportare i malati nel mondo, sfondando i muri del manicomio che toglievano loro il diritto a una storia, atrofizzavano le loro potenzialità relazionali e producevano condizioni cliniche deteriorate. Ma ancor più di Basaglia, Borgna ha esplorato i sentieri dell’anima e contribuito a formare medici, psicologi, infermieri, educatori, assistenti sociali. Ognuno con la propria specificità e un compito terapeutico decisivo, non derivato primariamente dalle conoscenze scientifiche, bensì dalla capacità di entrare in risonanza interiore con la sofferenza dei malati. L’uso dei farmaci non era certo escluso, purché non indiscriminato e all’interno di una relazione terapeutica improntata alla fiducia, pena il fallimento clinico oltre che umano della terapia.
A curare, per Eugenio Borgna, non erano le tecniche, farmacologiche o di altro tipo, ma la relazione. Perché, scrisse riprendendo Hölderlin, Noi siamo un colloquio. A fare di uno psichiatra, o di uno psicologo, un buon terapeuta non erano le conoscenze scientifiche (mai lineari, come ha scritto nel suo splendido I conflitti del conoscere) ma la sua capacità empatica di cogliere e vivere “Le intermittenze del cuore”, di abitare “L’arcipelago delle emozioni”, di contattare “Le passioni fragili”, disponendosi innanzitutto a un “Ascolto gentile”. Parlando, ma con una parola che fosse sempre un “Parlarsi” (sono tutti titoli di suoi libri). Perché il rapporto di cura è un incontro tra due soggetti, non tra un soggetto e un oggetto, dove le fragilità non sono solo quelle del malato.
L’ultima stagione di Eugenio Borgna, successiva a quella degli incarichi nelle strutture psichiatriche, non poteva che volgersi alle grandi esperienze interiori che ci riguardano tutti. La sua esperienza di psichiatra gli ha fatto conoscere più di ogni altro le profondità e le inquietudini dell’anima dei malati; ma i malati sono stati per lui i testimoni più radicali della più generale condizione umana. E allora ecco nuovi testi piovere come rugiada sul tema della tenerezza, della nostalgia, della solitudine, dell’amicizia, della saggezza, del silenzio.
In dialogo non più solo con la filosofia, ma soprattutto con la poesia, con la letteratura e con l’arte. E con il primato riconosciuto al pensiero femminile, più ricco di emozioni e di intuito.Fra questi ultimi testi spicca per bellezza e commozione la sua autobiografia (“Il fiume della vita”), che è anche un inno all’umiltà e alla speranza, in un tempo malato di narcisismo e di nichilismo. Il libro si conclude così: «… una vita che ha avuto la psichiatria come sua fragile compagna di strada: come sua fonte di riflessione sulla condizione umana ferita… e nondimeno aperta alla speranza… alla quale sempre guardare nelle notti oscure dell’anima».