«E venne il giorno, che in divin furore / la verità di Cristo mi costrinse / a giustiziar e libri e scritti e carte: / oh sì che quello fu un gran bel stracciare! / […] Ed ecco repentino a me salire / dal fondo del fracasso della strada / un patetico annuncio a me ben noto: / Strascéee … – Ehi, straccivendolo! – Egli pesta / passo per passo all’ultimo scalino, / ingombra il sacco sopra la stadera: / per poco prezzo quella roba tolse», ricordava un anziano Clemente Rebora nel suo “Curriculum vitae” (1955). Era il 1930 quando, preso dall’impulso di cancellare un passato letterario considerato d’intralcio alla sua conversione religiosa appena avvenuta, aveva fatto a pezzi tutti i libri e le carte che possedeva nel suo appartamentino di via Tadino a Milano, consegnandole poi a uno straccivendolo di passaggio.
Una scelta che ha impegnato molto gli studiosi reboriani, che per decenni hanno tentato di ricostruire almeno a grandi linee la biblioteca del poeta e, quindi, le sue letture. Proprio tramite i libri possiamo infatti tracciare la biografia di un autore, capirne gli interessi, conoscere le persone con cui era in rapporto, risalire alle reciproche influenze letterarie.
È quanto si propone di fare anche quest’anno l’Annuale Reboriano, dedicato a «Campana, Rebora, Montale: tre poeti e le loro biblioteche». I tre grandi poeti del ‘900 sono accomunati, infatti, da un costante riferimento ai testi, propri ed altrui, ed anche dalle vicissitudini accadute alle rispettive biblioteche, giunteci solo in modo frammentario.
«L’intensa frequentazione delle biblioteche da parte di Dino Campana è direttamente in rapporto con la peculiare internazionalità della sua cultura», spiega Gianni Turchetta, docente all’Università degli studi di Milano. «Una questione ancor oggi troppo poco conosciuta, così come poco studiata è la sottile, ma fondamentale e inestricabile compresenza, nei testi di Campana, tra esperienza reale e intertestualità».
Anche di Eugenio Montale, «lettore inesausto» di infinite pubblicazioni – precisa Stefano Fernando Verdino docente all’Università degli studi di Genova – «non è facile ricostruire la Biblioteca, perché traslochi, bombardamenti e l’alluvione del 1966 hanno disperso molto materiale. Per ricostruire le sue letture occorre quindi far riferimento alle molte citazioni di libri e autori nei suoi scritti, nelle sue lettere e nelle sue note di diario».
Una sorte quasi analoga a quella di Rebora, dunque, di cui conosciamo solo in parte gli interessi letterari tramite citazioni dal suo ricco epistolario, ma la cui biblioteca personale è stata ricostruita letteralmente pezzo per pezzo da Carmelo Giovannini e dallo scrivente, giungendo finora a rintracciare circa 120 testi che si ritengono appartenuti in qualche modo a Rebora. Un numero certo inferiore a quelli che possedette prima della conversione o che ebbe tra le mani nella sua vita religiosa, purtroppo segnata da continue dispersioni di materiali ad ogni trasloco.
Custodita nell’Archivio storico rosminiano di Stresa, la “biblioteca Rebora” non conserva nulla degli anni giovanili del poeta fino alla Grande Guerra. Vi si trovano invece testimonianze del decennio seguente (1918-1928): edizioni dei racconti russi tradotti da lui, esemplari della collana “libretti di vita” da lui ideata, opere di Giuseppe Mazzini, di filosofia indiana, delle sue poesie. Altri pezzi ci introducono negli anni successivi (1929-1936), fra la conversione e l’ingresso nell’Istituto della Carità a Domodossola: il messalino regalatogli dalle amiche Ezilde Carletti e Adelaide Coari, altri libri di preghiera, i quattro tomi dell’“Epistolario ascetico” e le “Massime di perfezione” di Rosmini. Numerosi altri testi di spiritualità rosminiana sono poi caratteristici degli anni ’40-’50, insieme a una copia dell’edizione delle sue poesie fatta dal fratello Piero nel 1947 – la prima dopo anni di silenzio artistico – e a numerosi libri di ascetica e devozione.
Con l’arrivo a Stresa nel 1954, colpito da ictus e inchiodato a letto, c’è in Rebora la ripresa della poesia più alta, quella del Curriculum vitae, del “Gran Grido”, dei “Canti dell’infermità”. Ne troviamo qualche esemplare, e ancor più troviamo testi letterari e poetici donatigli da altri autori: ammiratori noti e ignoti, negli anni che precedono la sua morte (1° novembre 1957), si appressano al suo letto di infermo per riceverne una parola, per omaggiarlo dei propri scritti o anche solo per vederlo. Ecco allora il servita David Maria Turoldo, l’amico Vanni Scheiwiller, lo stresiano Carlo Zapelloni, persino Luciana Frassati che gli dona la biografia del fratello Pier Giorgio.
«Abbiamo urgente bisogno di libri viventi, e subordinatamente di libri scritti, o di vite raccontate; e so cosa significhi e costi il tentarlo; e per questo genere di lavori non si trovano editori, tranne Uno, il quale non facilmente né per ragioni inferiori acconsente (a suo tempo, a opera compiuta) a stamparci» aveva scritto ad un’amica Rebora
già nel 1927, con stile volutamente allusivo alla dimensione spirituale. La lettura (e la produzione poetica, di conseguenza), quindi, non come riempitivo del tempo libero, né come pur lodevole mezzo di accrescimento culturale, ma anzitutto come espressione dell’anelito più profondo dell’animo.
Un desiderio di vita che in Rebora – così come in Campana e Montale – si esprime nella ricerca di un amore che soddisfi il cuore sempre inquieto anche quando pare placato umanamente: «Nel cuore della sera c’è / Sempre una piaga rossa languente», lo esprime il poeta di Marradi, mentre il lirico genovese addita la necessità di un «inganno che non illude, / crescere immenso di vita, / fiumana che non ha ripe né sfocio / e va per sempre, / e sta – infinitamente».
In seguito, con il lento approdo a Cristo, Clemente lo preciserà in altri termini e altri livelli, e il poetare diverrà «per me, più che mai, modo concreto di amare Dio e i fratelli».

Padre Ludovico Maria Gadaleta
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