Agricoltori costretti a “cambiare pelle”. Messi di fronte ai mutamenti climatici si interrogano su un futuro già presente: la mancanza d’acqua. Traduzione di una “mutagenesi” imposta: abbandono parziale della risicoltura, virata a favore di altre coltivazioni come mais, orzo, grano, girasoli. Il “salto di specie” potrebbe rivoluzionare la geografia e il volto di un territorio come quello di Novara, se non si trovano soluzioni pronte e pragmatiche. Un capitolo forse è già stato scritto al Castello di Novara, carico di storia e passato. Nella sala delle vetrate, dove Confagricoltura Novara e Verbano Cusio Ossola, con il suo presidente Giovanni Chiò, ha tenuto l’assemblea annuale, sono riecheggiate parole nuove: “Strategie dell’adattamento”, come ha indicato Stefano Boccaletti, docente dell’Università Cattolica di Piacenza; “Agricoltura 5.0” e “Hubfarm”, piattaforma per il controllo dei campi e degli effetti climatici, proposta da Fabio Isaia.
Ma su tutti, il vocabolo più ripetuto, è stato “cambiamento”. Nel brusio di una folta platea, che commentava (o dissentiva) sottovoce, Alessandro Carelli, docente dell’Istituto agrario Bonfantini, ha indicato senza troppi giri di parole alcune vie d’uscita da una situazione (leggi siccità) che rischia di abbattersi come pietra tombale sulle aziende: “Qualcosa va cambiato, compresa la coltura. In ogni caso è necessaria una gestione diversa dell’acqua, conservarla il più a lungo possibile, per evitare che la falda non si abbassi troppo”.
Un dibattito acceso, che chiama in causa non solo gli agricoltori. I quali chiedono di non essere lasciati soli in una battaglia strana e paradossale: combattere contro un nemico invisibile, l’acqua che non c’è. E’ la seconda volta che accade (nella primavera del 2022, ora si ripresenta): in generale i campi hanno sempre subito danni da alluvioni, da troppa pioggia. Adesso è il contrario, a meno che nelle prossime settimane ci sia un capovolgimento. In attesa di soluzioni radicali (la raccolta dell’acqua piovana attraverso laghetti e invasi sin qui mai costruiti) l’agricoltura deve fronteggiare il deserto. E invoca aiuto. Non è soltanto per salvare le produzioni e i bilanci aziendali. In pericolo è anche il made in Italy, con ripercussioni dirette sui consumatori. Matteo Lasagna, vicepresidente nazionale di Confagricoltura ricorda che “l’Italia oggi è il primo produttore europeo di riso, ma questo primato potrebbe andare perduto e compensato dalle importazioni selvagge. Così non si tutela la sovranità alimentare del nostro Paese. Ci viene chiesto di adattarci? La risposta è sì, ma la politica sia più vicina al nostro adattamento. Chiediamo che, come già avviene in Lombardia, anche in Piemonte sia dato il via libera alle nuove tecniche di miglioramento genetico delle piante, che possano resistere a siccità e malattie”.
La politica. Il sottosegretario all’Agricoltura, Patrizio Giacomo La Pietra: «In questi ultimi 20 anni non sono stati compiuti passi per realizzare i bacini artificiali. Ora stiamo rincorrendo ed è arrivato il momento di predisporre un piano nazionale che riveda tutto: mettere mano al sistema dei consorzi irrigui, troppi gli attori, occorre rivedere le governance, serve una strategia complessiva per l’agricoltura. Sulla reciprocità non siamo noi che dobbiamo inseguire le regole altrui, ma gli altri Paesi che devono allinearsi alle nostre produzioni. Non dimentichiamo che l’agricoltura italiana è la più sostenibile d’Europa. E quando si dice sostenibilità non si può prescindere da quella economica, il primo obiettivo. Ma è necessario anche ricordare alcuni paradossi: siamo i maggiori esportatori di pasta, ma non abbiamo il grano. Ora rischiamo anche con il riso. Infine: dobbiamo lavorare affinché sia riconosciuto il giusto valore di mercato del prodotto ed evitare il gap del prezzo tra il campo e il consumatore».
La volontà di cambiare pagina emerge dalle parole di Giovanni Chiò, il presidente di Confagricoltura novarese, che guarda oltre le mura. Non a caso ha dedicato il convegno all’agricoltura 5.0, il modello più avanzato che sa tenere insieme tecnologia e ruolo umano imprescindibile: «Se ci fermiamo al nostro orticello – osserva – saremo sempre i più bravi, ma soltanto nel nostro orticello. E’ necessario dare ai giovani un modello di agricoltura innovativa». E lancia una provocazione che fa sobbalzare qualche astante: «Il concetto di Pac (Politica agricola comune) come sostegno al reddito a me sta un po’ stretto. Preferirei il reddito». E prosegue con un esempio: «Questa Pac non mi piace perché in Calabria 38 mila aziende ricevono meno di 1000 euro l’anno. In Italia su un milione di imprese soltanto 600 mila hanno la partita Iva. E allora chiediamoci se tutte le risorse avute da Bruxelles vengono distribuite in modo corretto».
Poi passa in rassegna l’elenco dei problemi che affliggono il settore, «perché l’agricoltura in questi ultimi anni è diventata una calamita di problemi, ma siamo stanchi di subirli. A cominciare dalle importazioni del riso dal Sudest asiatico, contenente residui di triciclazolo. In Europa si sta pensando di aumentare i limiti di utilizzo di quel principio attivo, per consentire l’aumento dell’import. Ebbene, io non ci sto. E non ci stanno neppure i consumatori che con la guerra in Ucraina hanno iniziato a comprendere il problema delle importazioni».
Infine, ma non ultimo, la sete d’acqua. «Spiace che il consorzio Est Sesia oggi non sia presente. Chiediamo di comprendere le regole del gioco e una ripartizione uguale per tutti». Questo, il vero problema. In Italia c’è un piano nel cassetto da 20 miliardi di euro, finora inattuato. Potrebbe essere realizzato in parte con i fondi del Pnrr. Otto i progetti in Piemonte, per 491 milioni di euro. Inoltre l’Anbi (Associazione nazionale consorzi bonifica e irrigazione) prevede 10 mila laghetti entro il 2030. Sin qui le cifre. In attesa che le “casseforti d’acqua” siano realizzate per contrastare il cambiamento climatico gli studiosi come Stefano Boccaletti raccomandano di guardare la passato. Come dire: «Un grande avvenire dietro le spalle». In altre parole: incoraggiare la sommersione anche invernale (in alcune risaie è già avvenuto) per ricaricare le falde, in modo tale da attingere con maggiore facilità in primavera, quando le esigenze saranno impellenti. Nel Novarese la falda sotto le risaie nel 2022 si è abbassata di circa 20-40 centrimetri.
«Abbiamo bisogno di più pragmatismo – conclude Lasagna -. Il progetto laghetti? Bellissimo, ma bene che vada potrebbe essere realizzato fra cinque anni. Intanto si spendono risorse discutibili, come 357 milioni di euro lungo l’asta del Po per rivitalizzarlo sotto il profilo ambientale. Non basta salvaguardare la salamandra, occorre rivisitare il Pnrr. Puntare veramente sulle aziende che in Italia fanno agricoltura. Non sono più di 300 mila, il resto produce sacchetti di coriandoli».
Gianfranco Quaglia, direttore di Agromagazine.it