In due volumi (e un terzo in digitale) le omelie e gli interventi dell’episcopato novarese del vescovo Franco Giulio
Una raccolta dei testi del magistero del vescovo Franco Giulio Brambilla, tenuti durante il ministero episcopale a Novara.
È “Gesù il vivente. Un racconto” (Due volumi in cofanetto, Vita & Pensiero, Milano 2024, vol. I, pp. 347; vol. II, pp. 290, vol. III in digitale) che sarà nelle librerie e negli store on line a partire dal 5 aprile prossimo. Un’antologia che presenta, organizzati per tematiche trattate e in base alle occasioni nelle quale è stato pronunciato, una selezione degli interventi e delle omelie a partire dal suo primo anno a Novara.
Il terzo volume è in versione digitale consultabile gratuitamente, con un indice navigabile, a partire dall’indirizzo www.omeliefrancogiuliobrambilla.it.
Quasi tutti i testi sono trascritti dall’orale e ne conservano il tono che restituisce l’immediata freschezza della parola predicata. Il filo rosso che ha guidato la predicazione e gli interventi teologico-pastorali è stata l’attenzione alla dimensione narrativa della Sacra Scrittura. In queste pagine pubblichiamo l’introduzione all’opera che indaga proprio la stretta e inscindibile connessione tra il “racconto” e la Parola.
Fabula da te narratur
Il racconto narra una storia. La storia di Dio con il suo popolo ha la sua lingua peculiare nella narrazione che custodisce la singolarità del rapporto di Israele con il Dio dei Padri. Anche i vangeli sono il racconto di coloro che hanno incontrato Gesù come la presenza decisiva della loro vita e lo hanno seguito, creando il popolo della Nuova Alleanza.
Non è possibile, dunque, saltare la forma narrativa, per spremere in qualche modo dai documenti della fede il succo della dottrina e della morale cristiana. Beninteso, già la Torah (la Legge) contiene la storia narrata di Dio con il popolo insieme al suo corpus legislativo. Le dieci parole non sarebbero comprensibili senza l’alleanza che Dio stringe con Mosè e Israele. Il patto, tuttavia, si snoda in una storia, si distende tra la promessa e il compimento, prima con l’ingresso nella terra dove scorrono latte e miele, poi nell’attesa del Messia e, infine, con il dono dello Spirito che scrive la legge nel cuore di carne.
La storia della promessa attraversa il grande racconto del Primo Testamento. Essa si articola tra la narrazione dell’alleanza e il dispositivo della legge, ripresa nella parola profetica, che richiama alla fedeltà del patto con l’annuncio di giudizio e di misericordia; e poi messa a confronto con la riflessione sapienziale che si esprime nella lode (i salmi) e nei proverbi (la sapienza). L’arco della vicenda di Israele svetta, infine, sull’apocalittica che affretta l’attesa della promessa invocando un compimento risolutore.
Forse per questo il vangelo di Gesù contiene, fusi nel racconto, sia la parola profetica che il detto sapienziale. La narrazione evangelica è insieme racconto kerygmatico e catechesi ecclesiale. Il primo annuncia la presenza del Regno nella pienezza del tempo, il secondo ne fa risuonare l’appello nella vita dei discepoli. La cornice narrativa lega insieme annuncio del Regno ed esigenze della sequela. Vangelo e legge nuova (il discorso della montagna) sono profondamente intrecciati tra loro. Essi si fondono in modo sublime nella pasqua di Gesù, quando il Regno si identifica in Gesù, crocifisso e risorto, da cui scaturisce la vita nuova donata dallo Spirito.
Il racconto per eccellenza, l’episodio dei discepoli di Emmaus, è come l’anello d’oro su cui è incastonato il diamante del kerygma più antico: «Veramente il Signore è risorto ed è apparso a Simone» (Lc 24,34). Ciò che accade nel microracconto riguarda anche il “grande racconto”: esso intreccia continuamente kerygma e catechesi, annuncio e insegnamento. La funzione del racconto è di tenere ancorato l’insegnamento alla storia “singolare” di Gesù e di dispiegare l’annuncio negli spazi “universali” della vita ecclesiale e della testimonianza nel mondo. Nelle lettere di Paolo, teologia e parenesi, kerygma e istruzione morale (personale, familiare, sociale) strutturano addirittura la duplice partizione degli scritti dell’apostolo.
Il racconto ha perciò una funzione strategica nella formazione del Vangelo e della Sacra Scrittura in generale. Il Vangelo è un congegno (plot) scritto per cercare “dov’è” e “chi è” Gesù. Per incontrarlo bisogna cercarlo e, solo cercandolo ogni volta da capo attraverso le tante porte di accesso presenti nella narrazione evangelica, è possibile sapere chi è Gesù per noi e per tutti. Il “dov’è” fa riferimento alla sua storia singolare, il “chi è” confessa la sua identità personale. Il primo rinvia alla storia, il secondo alla fede. Il racconto non è solo il ponte che fa varcare l’“orribile fossato” (G.E. Lessing) tra storia e fede, ma àncora l’universalità della fede alla singolarità della storia. Una volta per sempre.
Nessuno può sfilare il dato storico dal riconoscimento di fede, perché già la storia di ogni uomo e donna è una vicenda umana a cui si accede nella relazione con essa. L’identità di una persona è data nell’incontro, nello scambio simbolico che avviene entrando in contatto con lei. Noi conosciamo l’identità delle persone raccontandole e il racconto custodisce l’incontro con la loro verità. Questo vale per ogni uomo e donna che incontriamo e, a maggior ragione, è vero per l’uomo del Vangelo. Il racconto è il punto di incandescenza che forgia l’unità di storia e fede: la fede ha interesse a custodire la storia singolare di una persona e non a tradirla, d’altra parte la storia è strappata al suo oblio, solo è se riconosciuta in una relazione di fiducia.
Si può sapere l’identità di una persona solo narrandola, si deve raccontare la sua storia per rinnovare il senso dell’incontro per sé e per trasmetterlo ad altri. Il racconto è il modo per portare alla parola, in forma orale o scritta, l’incontro. Un incontro diventa appello a rispondere non solo per il narratore, ma chiama ad affidarsi anche l’ascoltatore e il lettore. Il racconto ha, dunque, una duplice sporgenza: verso la storia narrata e verso la storia futura.
Sul primo fronte il lettore e l’ascoltatore della narrazione devono sempre fare la spola dal racconto alla storia di Gesù e viceversa, senza l’illusione di poter saltare il racconto per raggiungere un dato storico duro e puro di là dalla sua configurazione narrativa. Al di là c’è sì una storia, però in quanto la narrazione vi rimanda e la custodisce, perché il racconto ha la forma della testimonianza (antico e nuovo testamento). L’evangelista, e prima i predicatori della parola, parlano di una storia da cui si sentono interpellati e che continua a chiamarli ad una risposta credente. Il racconto ha così una funzione “configurante”, che mette in scena (storytelling) il dato storico (history) e lo configura in una “storia sensata” (story). Perciò non si può saltare la mediazione del linguaggio per accedere al messaggio e alla storia di Gesù. Questo non significa l’inaccessibilità della storia, ma che essa ci è tramandata in modo “configurato” e che la “ricerca storica” ricostruisce anch’essa, in base ai dati trasmessi, solo un’immagine della vicenda di Gesù di Nazareth.
Sul secondo fronte l’ascoltatore e il lettore della narrazione orale o scritta devono percorrere in ogni tempo l’ardito cammino, i cui segnali si trovano dispersi nel testo, che va dal racconto alla propria storia. Il lettore può lasciarsi istruire dai molti indizi che il narratore dissemina nel testo a beneficio del destinatario.
Quest’ultimo è presente nel testo, perché l’autore e/o il narratore, quando narrano (nella tradizione orale) o scrivono (nella redazione scritta) hanno di mira un lettore implicito (W. Iser) o un lettore modello (U. Eco). Il narratore (autore) onnisciente prevede nella trama lo spazio per un lettore/ascoltatore che immagina presente (implicito) o vuole addirittura plasmare (modello), lanciandogli messaggi, mettendolo talvolta in vantaggio, talaltra tenendolo in suspense, in ogni caso trasformandolo in attore della storia (Fabula de te narratur).
Nell’episodio dei discepoli di Emmaus, ad esempio, il lettore sa già fin dall’inizio chi è lo straniero viandante («Gesù in persona», Lc 24,15) che i due discepoli non riconoscono, benché l’abbiano frequentato per molto tempo. Eppure, il lettore d’ogni tempo, se vuole diventare discepolo, non può saltare i tre passi che i discepoli di Emmaus devono compiere: ripercorrere i momenti essenziali della storia prima e oltre la Pasqua; lasciarsi istruire dalla viva voce di Gesù, che illumina lo scandalo della croce cominciando da Mosè e dai profeti; invocare in tono orante che Gesù rimanga e si faccia riconoscere allo spezzare del pane. Ed ecco la sorpresa. All’inizio il lettore è in vantaggio perché sa che si tratta di Gesù vivente, mentre i discepoli fuggitivi non lo riconoscono; alla fine i discepoli lo riconoscono, mentre ospitano il Signore nella cena, ma Egli sparisce dalla loro vista. A questo punto il vantaggio del lettore è annullato, perché anch’egli, come i due discepoli, deve riconoscere il Signore allo spezzare del pane. Mentre lo svantaggio dei discepoli di Emmaus, che all’inizio non lo riconoscono, al centro della narrazione è colmato, perché Gesù fa ardere loro il cuore, anche se non lo vedono più come prima. Mirabile intreccio del racconto: il suo congegno fa diventare discepoli i viandanti di “prima” e “seconda mano” (S. Kierkegaard)! Il racconto non solo parla a te, ma soprattutto parla di te (de te narratur!). È la funzione “rifigurante” della narrazione (P. Ricouer). Il lector in evangelio riscopre il suo volto, anzi si sente cambiare la vita.
Questo è l’audace cammino che può fare il lettore di ogni tempo: ascoltare e leggere il racconto che apre lo scrigno della storia di Gesù, perché la propria storia “prenda i contorni” della vicenda di Gesù (si “rifiguri”). Per questo potremmo dire che l’annuncio del Vangelo è un “evento”. Il predicatore può essere annunciatore solo se rimane ascoltatore: può annunciare solamente che cosa e come ha ascoltato, perché a sua volta il suo uditore ascolterà come e che cosa gli è stato annunciato! Per questo il momento principe dell’annuncio è l’omelia: perché lì Dio parla attraverso il ministro del Vangelo che annuncia ciò che continua sempre da capo ad ascoltare, mentre il fedele ascolta quanto gli è stato annunciato, tentando di vivere l’atto della fede nell’azione celebrativa. L’evento dell’annuncio della Parola non può non lasciarsi modellare dalla forma del racconto: potremmo dire che è un racconto con il racconto.
La raccolta delle omelie e degli interventi, tenuti durante il mio ministero episcopale a Novara, ha cercato di essere fedele a quanto ho imparato e ho continuato ad apprendere nel vivo della predicazione, rispondendo alle molte domande che mi sono venute incontro in questi dodici anni. Quasi tutti i testi qui raccolti sono trascritti dall’orale. Salvo i Discorsi alla città, di cui peraltro vengono pubblicati soltanto due perché gli altri sono già editi, e le omelie della Messa crismale, che sono nate per iscritto, gli altri testi conservano il tono della forma orale, qualche inevitabile ripetizione, ma soprattutto l’immediata freschezza.
Debbo a mia mamma il dono dell’oralità, ma soprattutto sono in debito dell’incoraggiamento che ho recepito da parte di molti uditori. Mi sono sempre riferito a un destinatario considerato come uditore “implicito”, perché potesse diventare “modello”, per farlo ammaliare non dalla mia facondia, ma dallo splendore della parola narrata. Il debito più grato però va al segretario Matteo Ferretti, che ha trascritto gli interventi dei primi anni, e poi, a partire dal 2017, soprattutto a don Lorenzo Marchetti, con cui è nato un sodalizio inatteso tra chi parla e chi trascrive, perché ha portato con generosità e impegno i testi alla loro attuale chiarezza e bellezza.
Il dono di queste omelie è per tutti i sacerdoti e i ministri del Vangelo della Chiesa di Novara, per ringraziarli delle loro fatiche pastorali e perché la «Parola di Dio compia la sua corsa» (2Ts 3,1)!
Mons. Franco Giulio Brambilla, Vescovo di Novara