«Quando muore una persona cara (e, in questo caso, si tratta di un padre per tutti) è naturale piangere. Come famiglia, la Chiesa vive questa perdita con dolore. La morte, poi, ha per un cristiano due dimensioni. Una è quella che ci schiaccia verso il basso, con angoscia, smarrimento e senso di vuoto e della quale non bisogna vergognarsi. E’ perfettamente umana e Gesù stesso ne ha fatto esperienza. Ma, insieme, c’è un’altra dimensione, che delicatamente ci porta a guardare verso l’alto. E’ come un raggio di sole che filtra tra i rami più intricati e ci svela una luce più grande».
Monsignor Filippo Ciampanelli, sotto-segretario del dicastero della Santa Sede per le Chiese Orientali, è stato raggiunto dalla notizia della morte di Papa Francesco mentre si trovava a Novara, per pochi giorni di riposo durante le feste pasquali. E a caldo risponde ad alcune domande del nostro settimanale sulla figura di Papa Bergoglio, che ha conosciuto piuttosto da vicino. Lo fa a partire da alcune coincidenze, come il giorno della morte avvenuta nel Lunedì dell’Angelo.
«Papa Francesco – dice – è uscito di scena come è entrato: a sorpresa, perfettamente nel suo stile. Proviamo dolore e tristezza, ma al tempo stesso è bello pensare che si sia diretto verso la casa del Padre nell’Ottava di Pasqua. Si sa che il giorno di Pasqua non si riduce alla domenica, ma nella Chiesa dura otto giorni. Gesù è infatti risorto nel giorno dopo il settimo, che non è solo il primo, ma per la tradizione cristiana soprattutto l’ottavo: perché otto è il numero che segna il superamento del settenario, il quale simboleggia la ciclicità del tempo, e dunque è il numero dell’eternità. Indica la vita nuova, la vita risorta, che non conosce tramonto. Anche il nostro antico battistero del Duomo ha per questo motivo otto lati. Ebbene, compiere il passaggio nel grande giorno di Pasqua del Giubileo è testimoniare la speranza che la morte non ha l’ultima parola».
Anche Papa Wojtyla è morto nell’Ottava di Pasqua.
«Sì. Un’altra di quelle che alcuni chiamano “Dioincidenze” e che travalicano le coincidenze della cronaca. Papa Francesco, inoltre, che ha amato il titolo di Vescovo di Roma, ha compiuto la sua pasqua il 21 aprile, il “Natale di Roma”, festa civile che in Urbe, dove vivo da anni, è molto sentita. È come se avesse voluto dire addio alla sua gente nel giorno della sua città, dopo aver abbracciato la folla a piazza San Pietro. In più le sue ultime parole sono state quella della benedizione Urbi et Orbi, che è più di una benedizione: è un atto culminante di misericordia e di perdono nell’Anno del Giubileo».
Proprio la misericordia è forse uno dei tratti più distintivi del suo pontificato.
«Senza dubbio. È stato il Papa della gioia, della pace (non è un caso che il suo ultimo discorso sia un’accorata richiesta di pace per il mondo), ma direi anzitutto della misericordia. Spero sia ricordato anche per il Giubileo straordinario della misericordia e per quelle sue parole: “Dio perdona sempre. Non si stanca mai di perdonare” e ancora “Perdonate, perdonate sempre”. Lo ripeteva spesso a noi sacerdoti. Ricordo che una volta, al termine di uno dei pochi incontri personali che ebbi con lui, quasi all’uscita, mi disse con paternità e gentilezza: “Non avere mai paura di perdonare; nel dubbio, perdona sempre”. Come se di fronte alle miserie del mondo – quante ne vediamo! – la nostra risposta debba essere quella di una Misericordia superiore, eccedente, sorprendente. Quella che Dio usa con noi».
Il lutto per la perdita del Papa può insegnarci qualcosa come cristiani?
«Direi che non dovrebbe solo addolorarci, ma anche provocarci. In questi giorni si parlerà molto, ci saranno speciali a non finire sui media, analisi, commenti di vario tipo. Può interessare o stufare, ma è normale, succede sempre. Quel che invece non succede sempre, ma chiama direttamente in causa noi cristiani, è “focalizzare il centro”, cioè ricercare e favorire l’opera di Dio. E questo accade con la preghiera: pregare, invocare lo Spirito perché la Chiesa sperimenti in queste ore la sua chiamata ad essere seme di unità e testimonianza di carità. Preferire la preghiera a Dio rispetto alle parole sul Papa. Non è facile, certo, ma è così che il Signore, grazie all’intercessione di tanti, può fare di questi giorni un momento di grazia per molte persone, specialmente per chi è in ricerca, per chi è lontano, persone alle quali Papa Francesco guardava sempre con grande affetto, preoccupato che la Chiesa parlasse a loro e facesse qualcosa per loro».
Concretamente, quale gesto ci invita a compiere?
«Cercare un po’ di silenzio, fare comunione con Dio, mettere in pratica qualcosa di quello che per 12 anni Francesco ci ha ripetuto senza sosta, come ad esempio: “non dimenticatevi di pregare per me, leggete ogni giorno una pagina di Vangelo, smilitarizzate il cuore, non chiacchierate degli altri…” Se dovessi scegliere un gesto riproporrei quello che Papa Francesco fece nel 2013, quando dalla loggia delle benedizioni della Basilica di San Pietro interruppe le sue parole di inizio pontificato e chiese al popolo di pregare per lui. Si inchinò e ci fu un grande silenzio, colmo di preghiera. Ora tocca a noi fare lo stesso. Da un balcone superiore lui sorriderà».
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