Nella festa di san Mattia del 1593, esattamente il 24 febbraio, Carlo Bascapè riceveva la consacrazione episcopale, per le mani del cardinale Ludovico de Torres. Sono passati 430 anni da quell’avvenimento che avrebbe inciso in modo assai profondo sulla chiesa gaudenziana.
Cinque anni dopo, ripercorrendo quel fatto, Bascapè scrive una lettera alla diocesi, in cui appaiono chiaramente alcuni elementi della sua concezione del ministero di un vescovo.
Innanzitutto, appare il desiderio di condividere la gioia del ringraziamento con il popolo lui affidato, “che già non pare convenirsi che nella festa del pastore non habbia parte il gregge, e delle cose del padre non siano partecipi i figlioli”. Il vescovo è dunque pastore e padre, nonostante la “indegnità”, per la quale chiede aiuto a Dio; popolo e vescovo sono reciprocamente chiamati alla condivisione.
Invita il popolo a rallegrarsi del dono che è stato, per le genti del novarese, l’aver avuto come primo vescovo san Gaudenzio, e poi via via tutti i vescovi, fino a quel momento “pensando come sotto questa santa cattedra sia continuata sempre, succedendo l’un vescovo all’altro, la pietà e la religione ne’ popoli novaresi, per salute di quelli che sono stati, e sono di presente”. La presenza di un vescovo appare dunque come garanzia della vita religiosa di un popolo e della sua salute spirituale, nella linea di una profonda continuità nella storia, pur nella necessità di una continua riforma.
Prosegue con la riflessione sull’impegno reciproco di conoscenza che debbono avere vescovo e fedeli, “penserò io l’officio del pastore insegnato da Christo pastore supremo, di conoscere le sue pecorelle, e voi di riconoscere il pastore, io quello di andare avanti, voi all’incontro quello di seguire, io quello di dar voci, et voi l’altro di udirle”. La sua idea è molto chiara sul compito di guida che il vescovo deve esercitare, un compito gravoso ed impegnativo per entrambe le parti, come rimarca più avanti “chi ode lui, ode Christo, chi dispregia lui, dispregia Christo, chi riceve lui riceve Christo e Dio Padre insieme; queste gravi e importantissime considerazioni deono essere l’esercitio mio e vostro”.
Egli chiede anche perdono per le possibili omissioni, “Vò pensando io quante opre di sollecitudine pastorale verso di voi ho tralasciato […] le omissioni di consolatione, ricordi e aiuti paterni”, allo stesso modo richiama il popolo al dovere di un esame di coscienza “se havete portato l’honore e il rispetto dovuto a questa santa e divina autorità episcopale, se havete accettato le monitioni e ricordi paterne e le correttioni pastorali con animo pacifico, semplice e filiale, come da Christo”.
Invita il popolo alla preghiera, considerando il peso del ministero, “Habbiate figliuoli compassione al peso, al pericolo, alla continua sollecitudine episcopale: pensate la cura, che in tante e sì diverse maniere di persone e di negotii soprastà al povero vescovo, pensate la diocese grande, la natura umana male inclinata […]”. Molto bello il vedere il vescovo che è considerato come Cristo, nelle stesse pagine qualificarsi con l’aggettivo di “povero”, per la gravosità del suo compito. Grandezza ed umiltà nella considerazione di un ministero che richiede assidue cure e immani fatiche.
Il Bascapè si inserisce profondamente nella scia del Concilio di Trento, “perpetvvs alvmnvs” del grande vescovo Carlo Borromeo (come recita la lapide – icastica descrizione della vita e degli incarichi del Bascapè – fatta porre nella chiesa di san Marco dai Prefetti dell’Ospedale della Carità di Novara; attualmente si trova sulla parete occidentale esterna della sacrestia del Duomo, nel cortile del palazzo vescovile).
Bascapè rappresenta l’immagine del vescovo riformatore che, nutrito dagli ideali della Riforma Cattolica, si prende cura – anche a prezzo di immani fatiche – della chiesa lui affidata, con un impegni in prima persona, testimoniato dalle oltre tredicimila lettere, dai tre Sinodi convocati, dai 51 tomi di Viste Pastorali, visite vissute come lo strumento princeps affinché il vescovo possa conoscere le popolazioni e il territorio lui affidati e, allo stesso tempo, farsi riconoscere dal suo gregge. Il Bascapè dedica molto tempo ed energie a questa faticosissima opera, considerando la vastità e le difficoltà geografiche del territorio diocesano. Le Visite pastorali ci fanno comprendere come suo metodo d’azione fosse quello della presenza, della verifica diretta e della diretta decisione: “Ecclesiam administravit semper praesens”.
Una riforma, uno stile, un metodo che lascerà tracce durature nella diocesi novarese; a testimonianza di questa impronta di lungo periodo, data dal Bascapè alla diocesi, e della forte valenza simbolica del suo nome nei progetti di riforma, ancora nel sinodo convocato nel luglio 1826 dal cardinale Giuseppe Morozzo, – dunque oltre duecento anni dopo la morte di Bascapè – si fa riferimento al presule barnabita, come modello di vita e di azione pastorale.
Don Paolo Milani, direttore dell’Archivio storico diocesano