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La diocesi di Novara è in festa per la beatificazione del martire don Giuseppe Rossi, sacerdote diocesano ucciso il 26 febbraio 1945 da una squadraccia fascista in odio alla fede. Un testimone credibile e attuale del Vangelo, ma anche dei valori umani civili e sociali su cui si fonda il nostro convivere civile e ai quali è ispirata la Costituzione repubblicana. Di seguito un testo del vescovo Franco Giulio Brambilla che ne presenta la figura. Qui tutte le informazioni per partecipare al rito di beatificazione, domenica 26 maggio alle 16 in cattedrale e in basilica di san Gaudenzio.

Campione di dignità umana, frutto della vita per il Vangelo

Possiamo raccogliere tre aspetti circa il valore pastorale, sociale e culturale del tragico assassinio del parroco di Castiglione d’Ossola, barbaramente ucciso due mesi esatti prima della liberazione (avvenuta a Novara il 26 aprile 1945), collocandolo nel suo contesto storico, sociale e pastorale.

La Costituzione repubblicana si fonda sul patto sorto dal processo di liberazione, a cui in quel tempo hanno partecipato formazioni di ogni orientamento ideale, per ridare verità, giustizia e libertà all’Italia. La Carta prende valore e sostanza da un evento di liberazione e da un’alleanza ideale attorno a valori, che si sono sedimentati nel dettato costituzionale.

All’evento di liberazione e all’alleanza da esso generata hanno partecipato in tanti, a diverso titolo: molti sono stati combattenti, compresi anche sacerdoti, e hanno lottato nell’impegno diretto della resistenza; altri li hanno fiancheggiati consentendo il sostegno, l’approvvigionamento e la sopravvivenza  delle formazioni partigiane, altri, infine, sono rimasti nei paesi e nelle città per favorire il lavoro e la famiglia, per la cura degli anziani e dei ragazzi e giovani, per l’animazione spirituale e caritativa delle comunità, a presidio della continuità della vita sociale, pur nel travaglio di uno scontro spesso mortale. Tre sono gli aspetti notevoli.

Il primo: la testimonianza di don Giuseppe Rossi si colloca nel solco del terzo tipo di presenza, dedito alla comunità, al suo compito spiritale e pastorale, alla cura sociale e caritativa delle fasce deboli della popolazione, che non sono entrate direttamente nel conflitto civile. L’accurata ricostruzione degli storici ha scagionato il giovane parroco di Castiglione da ogni possibile fraintendimento di collusione con i protagonisti della Resistenza, anche se il suo sentimento fu certamente a favore della ricerca della libertà e giustizia. Tale dubbio è stato alimentato, nel suo paese nativo, dalla postuma dedica di una scuola elementare col titolo di “martire della Resistenza”. La sequenza dei fatti però lo smentisce: l’attentato mattutino di una postazione di partigiani a una colonna di fascisti, non fu il motivo diretto del suo assassinio; gli abitanti inermi del paese, presi subito in ostaggio, furono rilasciati tutti nel pomeriggio, compreso lo stesso don Giuseppe; tornato a casa, nonostante la premura dei vicini e l’insistenza della sorella, volle fermamente rimanere in paese e in casa per stare vicino alla sua gente; il successivo intervento di una cellula della Brigata fascista Muti, ha comandato e perpetrato verso sera il delitto come rappresaglia gratuita. Don Giuseppe non fu assassinato perché resistente, ma perché prete e pastore fedele alla sua gente!

Il secondo: le testimonianze immediate, successive all’efferato delitto, si sono sempre distanziate dall’infelice strumentalizzazione dell’assassinio, da parte di chi, dopo la liberazione, cercò di appropriarsi del triste caso del parroco di Castiglione per farne una bandiera di antifascismo e di libertà. Tutte le testimonianze, comprese quelle di fascisti locali, vanno in altra direzione. Anche all’interno della diocesi lo scetticismo circa la possibilità di riconoscerne il martirio fu presto superato, pur nella intricata situazione di opposte fazioni militari e ideologie fuorvianti. La testimonianza corale di aver pagato per essere rimasto fedele al suo servizio fu riconosciuta dalla sua gente e dalla Chiesa novarese: don Giuseppe ha testimoniato una fedeltà al mandato pastorale a rischio della propria vita. Per questo rimane ancora oggi una conferma luminosa del valore pastorale e del presidio sociale, operato dalle parrocchie con i loro pastori, mediante una presenza capillare sul territorio che ha forgiato il panorama della civiltà parrocchiale dell’Europa del secondo Millennio.

Il terzo: la testimonianza di un ministro del culto nel secondo conflitto mondiale può essere motivo di ispirazione per credenti e non credenti. Anzitutto, perché la generazione postbellica ha beneficiato della libertà, conquistata da coloro che ci hanno liberato dallo scarpone di ferro fascista e nazista, creando un orizzonte di pace durato sinora, oggi ancor più prezioso sullo sfondo dei conflitti che stanno alle nostre porte. Don Rossi però resta un campione di quell’humanitas che è il frutto più bello della visione e della pratica cristiana, e che, nei primi decenni della ricostruzione del Paese dopo guerra, si è confrontato e ha collaborato con le altre forze culturali e politiche che avevano concorso alla liberazione. Il giovane parroco di Castiglione era sicuro nell’indicare che il segreto della sua fedeltà, il motivo per cui non ha abbandonato il suo gregge, non era anzitutto la battaglia per la liberazione, ma la fedeltà all’ideale cristiano, alla legge morale, umana e sociale. Egli ha voluto stare tra la sua gente per consolare, aiutare, educare, animare quel barlume di vita ancora possibile nel travaglio del conflitto civile. Quello che ha fatto per quasi due anni dopo l’8 settembre, l’ha vissuto nel breve volgere di un giorno, pronto semplicemente a pagarlo con la propria vita. Per proteggere la sua gente al prezzo della stessa esistenza!

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