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Sono trascorsi 80 anni da quel 26 febbraio 1945 e la Chiesa novarese ha celebrato per la prima volta la memoria liturgica del suo nuovo beato, don Giuseppe Rossi. Ma in questo gesto liturgico, tanto atteso e sofferto, opera sull’altare con rinnovata fecondità l’eredità lasciata ai cristiani-testimoni del XXI secolo: quella di vivere fino in fondo la chiamata evangelica.

Quel “piccolo e umile” prete immolatosi 80 anni fa per la salvezza del suo gregge rinnova la parabola del chicco di grano ma pure attesta che altri ne sono presenti e operanti nel Popolo di Dio in cammino in quella che è storia di salvezza. E ai tanti (e ai troppi) – per dirla con Giovanni XXIII – che «nelle attuali condizioni della società umana non sono capaci di vedere altro che rovine e guai… dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori … e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita», don Giuseppe risponde con le medesime espressione del santo pontefice: «a noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo», dal momento che sempre la Provvidenza divina opera in piani misteriosi e «una mano è sempre tesa».

Don Giuseppe lo ha fatto nel suo tempo e chiede a noi di fare altrettanto nel nostro.
Lui che proprio lo aveva posto come programma di vita sacerdotale, prendendo a prestito le parole dell’apostolo Paolo nella sua seconda lettera ai Corinzi, sull’immaginetta della prima messa: «Darò quanto ho, anzi darò tutto me stesso per le anime vostre». È del resto ciò che gli aveva ricordato il vescovo di Novara, Giuseppe Castelli, durante l’omelia dell’ordinazione: «ne sois jamais Prêtre sans être ostie», non sarai mai un prete senza essere anche vittima per il sacrificio eucaristico. Un binomio che si riassume bene l’immagine evangelica del Buon Pastore (Gv 10): conosce i suoi, se ne prende cura, cerca per loro i pascoli buoni e fertili, va incontro alle pecorelle smarrite e dà la vita per loro.
Questo resta sempre valido per il prete di ogni tempo, come ha ricordato Giovanni Paolo II nella Pastores dabo vobis: ogni sacerdote ripresenta Cristo con la parola e i sacramenti, che diventano operanti nella Chiesa e tra gli uomini per via di un’efficacia propria; ha a cuore soprattutto l’Eucarestia e il sacramento della Penitenza, di cui vive egli stesso; si identifica fortemente con il suo ministero con il tendere il più possibile, nel pubblico e nel privato, a “mostrare la bandiera”, ad annunciare la buona novella con chiarezza inequivocabile e senza compromessi le proprie posizioni all’interno della Chiesa, seguendone fedelmente il Magistero.

Don Rossi lo ha fatto nei sei anni di ministero parrocchiale, in tempo tragico di dittatura e di guerra mondiale. È passato in questa grave temperie storica dall’entusiasmo tipicamente giovanile di chi vuole “tutto e subito”, «la conquista delle anime», a quella comprensione paterna propria del parroco, mediante l’esperienza pastorale degli anni, comprendendo che anche il prete dovrà mettersi al passo con la sua gente per camminare alla scuola di Cristo, senza derogare in nulla dal proprio ministero.
Senza mai cedere alla tentazione di fuggire “in sacrestia” o divincolarsi in un mondo etereo, spiritualizzato e disincarnato. piuttosto «col coraggio dell’atleta», prendendo tra le mani la sua umanità, correggendola ed offrendola, si fa prossimo al Popol di Dio, in un intreccio in cui il cuore del pastore e quello del gregge, a lui affidato, si elevano continuamente insieme. Poiché non «Gesù non lo si segue fino ai piedi della croce, ma occorre salire con Lui sulla croce»!

È questa generatività propria della civiltà parrocchiale che regge ancora oggi l’urto del tempo. In questo modo di essere ed esserci di prete e di parroco sta, anzitutto, il modello per tutti i sacerdoti di oggi che hanno come primum la cura animarum: essere preti fino in fondo per essere àncora affidabile per tutti coloro che cercano la Verità di se stessi, in un luogo, la parrocchia, nonostante la fluidità di un mondo, continuamente segnato da marosi e intemperie. Ma questa generatività non è legata solo alla figura del sacerdote! Egli stesso è parte di quel Popolo di Dio in cammino nella storia, che comprende tante figure laicali e ministeriali, di cui si sta oggi rinnovando in tante forme la reciprocità al mistero ordinato.

È così che nell’icona di questo giovane “parroco martire” possono (e devono) trovare posto i tanti martiri/testimoni cristiani che hanno dato forma e vita alla parrocchia, di cui è capillare ma ancor più necessaria una presenza rinnovata e feconda nella nostra terra e in quella dell’Italia. La partecipazione straordinaria di popolo al rito della beatificazione e ininterrotta alla memoria del Beato ci narra ancora oggi la forza della parrocchia e la sua capacità di essere punto irradiante del Vangelo nella quotidianità delle persone. La mano discreta di chi quotidianamente apre ogni mattina la porta della chiesa è il segno evidente che la civiltà parrocchiale ha ancora molto da dire e da offrire ai tanti che cercano il Signore senza barriere. Certamente – lo si constata – la parrocchia è un tornello di persone che vanno e che vengono, ma resta un porto sicuro nel territorio per costruire nell’oggi quella civiltà dell’amore, che trova nella celebrazione eucaristica domenicale il punto più stabile per riconoscersi come uomini e donne, creati ad immagine e somiglianza di Dio, e come persone in relazione con il Signore e con i fratelli.

La figura di don Giuseppe costituisce così oggi più mai una iniezione di fiducia in un tempo segnato gravemente da passioni tristi che tendono ad oscurare anche l’universo credente cristiano.
La sfida, sempre aperta e discreta resta quella di essere ed esser-ci e per “rialzare la prua” con un sano scatto di orgoglio navigando anche nel mare aperto e accogliendo l’invito del Maestro: «prendete il largo e gettate le reti». Don Giuseppe nel suo tempo l’ha accolta e fatta risuonare: perché mai non dovrebbe essere possibile per noi oggi?

Marco Canali

Don Marco Canali, Delegato episcopale per la causa di beatificazione

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