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La percentuale di donne che ricoprono ruoli dirigenziali di alto livello rimane ancora estremamente contenuta. Anche se esistono prove ormai inconfutabili che dimostrano come la presenza femminile in azienda porti a un miglioramento del successo finanziario e della competitività.
La Curtin Business School di Perth ha dimostrato che le donne manager migliorano la performance delle aziende. La ricerca, durata sei anni, si è basata sui dati raccolti dall’Agenzia federale sull’uguaglianza di genere sui posti di lavoro, la Workplace Gender Equality. Cosa è emerso? Che le compagnie guidate da amministratrici delegate hanno migliorato il proprio valore di mercato del 5%. Aumentando del 10% il numero di donne in posizioni di leadership, il valore di mercato dell’azienda è migliorato del 7%.

Ma qual è la situazione a livello mondiale? 
Due miliardi e mezzo di donne vivono in Paesi dove sono in vigore leggi che restringono le loro possibilità di scelta sul mercato del lavoro. In 18 Paesi, i mariti possono legalmente impedire alle mogli di lavorare. In 59 i Paesi il codice penale non prende in considerazione il reato per le molestie sessuali sui luoghi di lavoro.

Vogliamo parlare di soldi? Sappiamo (ma non ci abitueremo mai!) che le donne globalmente guadagnano meno degli uomini. Il gender gap retributivo è stimato al 23%. I n altri termini, le donne guadagnano il 77% di quello che invece si portano a casa gli uomini. E va aggiunto che, in molti Stati, soprattutto emergenti, questo dato è sottostimato.
E perché le donne non lavorano e guadagnano di meno?

Per la cura domestica che continua a essere – quella senza ombra di dubbio – appannaggio quasi esclusivo delle donne. A loro toccano tutte quelle attività non retribuite che consentono alla società di riprodursi, come prendersi cura dei figli, della casa, degli anziani.
Secondo l’Oxford Committee for Famine Relief) se il lavoro di cura venisse monetizzato, ammonterebbe a 12 mila miliardi di dollari (per avere un’idea, più del fatturato delle 50 più grandi compagnie del mondo, come Amazon, Google o Apple).
In Italia, secondo L’Istat, il lavoro non retribuito assorbe il 38% del tempo di lavoro totale degli uomini ed il 75% di quello delle donne. Per lavorare e guadagnare, alle donne rimane solo il 25% del proprio tempo. Va da sé che è ingiusto. Ma è anche uno spreco.

Cosa stiamo perdendo? Riusciamo a quantificare quanto potremmo guadagnare collettivamente se conseguissimo l’equità di genere sul mercato del lavoro? Secondo le stime dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, se il tasso di occupazione femminile fosse pari a quello della Svezia (72%, mentre l’Italia è al 49%), il PIL dell’area potrebbe aumentare di 6 mila miliardi di dollari. Attualmente la gestione dei diversi gender gap costa il 15% del PIL. Alle statistiche ufficiali occorre aggiungere le occupazioni informali, come il lavoro autonomo, per allargare un quadro già di per sé poco allettante. L’incidenza del lavoro autonomo nel nostro Paese è fra i più alti (16 per cento). Ed in questo caso il divario salariale rispetto ai lavoratori autonomi di sesso maschile è piuttosto ampio: un differenziale del 54 per cento. Le donne tendenzialmente lavorano in settori meno redditizi e dato il divario di genere nel lavoro non retribuito è plausibile che le autonome in Italia facciano più fatica a conciliare le responsabilità fra professione retribuita e mansioni non pagate.
Si dovrebbe giungere a consapevolezza che, a lungo andare, la diseguaglianza non è solamente ingiusta ma è anche portatrice di una complessa inefficienza dell’intero sistema.

Se un Paese non è in grado di far partecipare tutti i suoi cittadini al progresso della società significa che sta minando le basi della sua stessa crescita.
Se soprattutto, precludiamo alle donne di partecipare attivamente al mondo del lavoro, non stiamo solo negando un loro diritto ma stiamo privando l’intero sistema di un apporto insostituibile di idee ed energie.

In futuro le aziende avranno difficoltà a rimanere competitive se non riusciranno ad attirare e conservare i migliori talenti. E le donne conseguono lauree specialistiche anche più degli uomini.
Sarebbe il momento di cambiare. Subito. Il cammino sinora percorso è stato contrassegnato da alcuni successi, ma la strada è ancora lunga. È indispensabile che nell’ambito di una collettività si lavori tutti insieme, sia sotto il profilo dei cambiamenti culturali, sia sotto quello dei cambiamenti materiali Le “rivoluzioni” di breve respiro sovente tamponano soltanto un’emergenza: quelle più durature si possono realizzare solo con il contributo di tutte e tutti.
C’è bisogno delle competenze delle donne ma anche di un sistema organizzativo che sia in grado di valorizzarle.

Altrimenti – per usare le parole di Elena Bonetti , ex ministro alle Pari Opportunità – è come disporre di giocatrici di serie A ma scegliere di lasciarle in panchina. 

Laura Fasano, Vice direttore Emerito de Il Giorno

Laura Fasano, Vice direttore Emerito de Il Giorno

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