La globalizzazione, che ha proceduto con passo accelerato soprattutto a partire dalla fine del secolo scorso-inizi di quello attuale, ha generato notevoli mutamenti nella geografia della produzione a livello mondiale, con contraccolpi negativi, in termini di occupazione, sui paesi che, come l’Italia, hanno un’attività economica fortemente centrata sulla manifattura, risultando pertanto in concorrenza diretta con quelli emergenti.
La risposta adottata dalle imprese, i cui prodotti rischiavano di essere spiazzati da quelli realizzati in contesti che potevano godere di maggior protezione da parte dello Stato, di minori regole, soprattutto in termini di tutela ambientale, ed in generale di minori costi del lavoro, è stata inizialmente quella di delocalizzare le produzioni nei paesi a basso costo del lavoro per evitare di perdere quote di mercato sia all’interno che all’estero.
Questa reazione ha generato un ulteriore impatto negativo sull’occupazione (oltre a quella diretta causata dall’aumento del numero di produttori) ed ha rallentato la dinamica delle retribuzioni, che dalla seconda metà degli anni ’90 ad oggi sono rimaste inalterate nel nostro paese. Sono evidenti le implicazioni – in termini di potere d’acquisto delle famiglie e pertanto in termini di consumi e benessere collettivo – di questa strategia, per fortuna sempre meno adottata. Peraltro questa non è stata l’unica, e neppure la più efficace nel lungo periodo, modalità con cui gli imprenditori italiani hanno cercato di difendere la competitività dei loro prodotti nel nuovo contesto.
Le imprese che hanno fronteggiato più efficacemente la concorrenza internazionale sono quelle che hanno saputo rendere “unici” i loro prodotti, differenziandoli in termini di qualità, design, innovazione rispetto ai concorrenti. Un esempio è rappresentato dalle produzioni universalmente riconosciute come Made in Italy (abbigliamento, arredamento, agroalimentare, oreficeria, ceramica) che hanno consentito di mantenere elevate le esportazioni del nostro paese, garantendo un’adeguata redditività alle imprese. Quest’ultima è una condizione indispensabile per realizzare gli investimenti, che a loro volta sono propedeutici alla conservazione della clientela, che non si può mai considerare definitivamente acquisita.
L’apertura dei mercati diffonde la conoscenza sia in termini di caratteristiche dei prodotti, sia in termini di tecnologie e pertanto anche i sistemi economici, inizialmente meno evoluti, hanno avuto la possibilità di migliorare i loro prodotti, impadronendosi delle stesse tecnologie e dei processi organizzativi dei paesi più sviluppati. In alcuni casi hanno mostrato che l’“allievo può superare il maestro”, come sta accadendo con l’auto elettrica.
Se la concorrenza veicola la conoscenza, la globalizzazione può generare un circolo virtuoso che favorisce un’innovazione continua, come strumento, di affermazione sui mercati, garantendo altresì un crescente benessere a livello planetario, a tutto vantaggio dei consumatori che possano disporre di prodotti sempre più evoluti a prezzi adeguati. Diverso è invece il caso in cui alla competizione basata sull’innovazione si preferisca l’imitazione e all’informazione sulla corretta origine dei prodotti vengano sostituite pratiche che tendono ad ingannare il consumatore sulle effettive caratteristiche, sulla provenienza e sulle modalità con cui il prodotto che acquista è stato effettivamente realizzato.
È evidente che quando la competizione tra imprese viene interpretata e gestita con le modalità a cui si è appena fatto cenno, chi investe in ricerca, per sviluppare prodotti che anticipino i bisogni dei consumatori, subisce un grave danno e con lui la comunità su cui insiste, perché chi imita può immettere sul mercato beni a prezzi più bassi, non avendo sostenuto i costi della ricerca di nuove tecnologie o nuovi prodotti. Purtroppo per combattere queste pratiche non è sufficiente la legislazione, che spesso viene adottata solo quanto sono evidenti gli effetti dei comportamenti sleali e qualcuno ne ha già pagato le conseguenze. A mio avviso è importante che le imprese vengano sostenute, anche sotto il profilo fiscale, quando dedicano risorse all’attività di ricerca e sviluppo. Le ricadute di quest’ultima sulla società sono innumerevoli e vanno dall’aumento di produttività, che poi può essere trasferito alle retribuzioni, che accrescono i consumi e quindi la produzione e l’occupazione, al rafforzamento dei legami con il sistema universitario e della ricerca in generale, stimolando la domanda di elevate professionalità e quindi la crescita del capitale umano, esso stesso agente di innovazione.
Anche i consumatori possono essere protagonisti nel favorire una leale competizione tra le imprese orientandosi verso modelli di consumo che antepongano alla quantità la qualità dei beni acquistati. Nella scelta dovrebbero essere privilegiate:
1) la chiarezza e la trasparenza con cui il produttore fornisce informazioni sull’impresa e i suoi prodotti;
2) le caratteristiche intrinseche dei beni quali, ad esempio, la tipologia (con particolare attenzione alla riciclabilità) o la provenienza (anche geografica) delle materie prime;
3) una attenta gestione della filiera produttiva (chi sono i fornitori da cui acquista i beni intermedi il produttore del bene finale?);
4) le produzioni del territorio per amplificare le ricadute sulla comunità locale.
Non è questione di campanilismo, ma la vita dei territori è fortemente condizionata da ciò che, anche in termini di opportunità occupazionali, essi possono offrire alla popolazione, che alternativamente si vedrebbe costretta ad abbandonarli.
Eliana Baici, Professoressa ordinaria di Politica Economica all’Università del Piemonte Orientale