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Guarda al volontariato il San Gaudenzio di quest’anno. Il vescovo Franco Giulio Brambilla incoraggia a «dare un’anima al volontariato, come dono libero e gratuito» che scalda il cuore e accende i valori della coscienza.

Il tempo del lockdown che rappresenta una memoria ancora viva ha potuto essere superato anche per l’impegno di tanti che si sono offerti per affrontare le emergenze. Chi portava la spesa a casa di chi non era in grado di muoversi?

Ma con il pur faticoso ritorno alla normalità è obbligatorio riflettere sulla diminuzione dell’impegno di chi si offre gratuitamente.

Questa disaffezione è in parte conseguenza delle norme sul “Terzo Settore” introdotte per mettere ordine in un mondo composto da un numero infinito di di associazioni che partecipano della vita collettiva della società. Correndo però il rischio – è la preoccupazione del Vescovo – «di spegnere il volontariato umile e gratuito».

Monsignor Brambilla si rivolge direttamente alla comunità cristiana: «solo con l’ossigeno della gratuità anche il volontariato più strutturato e a tempo pieno non perderà la sua anima generosa». 

In gioco non c’è solo un modello di servizio ma un’idea di società. Che si misura nella differenza tra la solidarietà (che è quasi sinonimo di assistenza)  e sussidiarietà (che «chiama in gioco il rapporto tra i singoli e lo Stato, nella sua forma “verticale” e tra le diverse associazioni tra loro nelle dinamiche “orizzontali”»).

Significa che nessun “soggetto superiore” (come lo  Stato) dovrebbe intervenire in quei settori dove già operano bene soggetti “inferiori”, tra i quali proprio il volontariato. Ma lo spazio della sussidiarietà è anche quello di tutti quei «corpi intermedi», dove non solo si «si svolge la personalità dell’uomo, come dice la nostra costituzione, ma dove (come aveva proposto La Pira durante i lavori della Costituente)  la persona cresce e si forma». 

Immediato, allora, pensare ai giovani.  Un’inchiesta realizzata solo pochi anni fa su un campione di 1000 ragazzi del Novarese aveva messo in luce come il 40 per cento di loro si dedicasse allo sport e solo una percentuale inferiore al 5 si impegnasse in iniziative di volontariato. 

Per invertire un percorso inevitabilmente orientato al basso occorre incoraggiare i giovani «a dare una mano».

Come? «Sono scoraggiati – puntualizza  il Vescovo – da quella che si definisce ‘soglia alta’ d’accesso in seguito alla quale vengono utilizzati come ‘forza lavoro’ al di fuori di un progetto che non li mette al centro. Servono altri paradigmi: il che significa coinvolgerli come protagonisti a tutti gli effetti offrendo loro ruoli anche impegnativi di chi partecipa effettivamente alla formulazione delle decisioni».

Certo, «occorre un approccio sufficientemente elastico per ragazzi e adolescenti, dove il servizio ha ancora la funzione dell’esperimento, del tentativo di fare per provare se stessi ma poi più continuativi per i giovani, dove il servizio richiede una dedizione a obiettivi comuni dove, insieme allo sforzo, si mettono insieme il progetto, gli ideali, il controllo dei risultati, la continuità sulle lunghe distanze».

Il volontariato autentico non si accontenta di un «mordi e fuggi» estemporaneo, pretendendo un’applicazione costante diluita nel tempo ma senza evidenti interruzioni.

Difficile? «Il ‘per tutta la vita’ – conviene il vescovo Brambilla – è parola che spaventa. La cultura dominante con i suoi singulti di relativismo incoraggia a visioni di corto raggio perché – la giustificazione – le cose cambiano in fretta con il domani che è comunque troppo diverso dall’oggi. Invece, il ‘per sempre’ si può decidere se prima abbiamo provato noi stessi in una dedizione non episodica, improvvisata, che assaggia come all’aperitivo, senza mai sedersi al banchetto della vita. La preghiera, la liturgia, la formazione, la riflessione, il silenzio, l’approfondimento culturale (tutto ciò che chiamiamo appunto formazione) può essere scoperto anche nel gesto della carità, nel volontariato, nel servizio sociale. Guai se si dicesse che il volontario agisce ma non prega, non comunica, non pensa, non scambia desideri e sogni. A questo punto egli stesso si impoverirebbe e domani, anche solo in una normale vita di famiglia, non saprebbe reggere sui ritmi della vita quotidiana. La carità da se stessa richiede di diventare vocazione, scelta di vita: altrimenti molti giovani che hanno fatto con noi un cammino di formazione e di fede, li potremmo trovare domani con comportamenti che sembrano aver lasciato alle spalle il proprio volontariato come un esperimento giovanile dimenticato nella vita adulta».

Del resto – aggiunge – «molti altri hanno vissuto il loro servizio come una malattia inguaribile, come una passione irresistibile che ha plasmato le proprie mani, le proprie fatiche, le fibre dell’esistenza e ha tessuto meravigliose storie di uomini e di donne che sono ritornati alla carità come vocazione, come scelta di vita che, non dico con spontaneità, ma certo con semplicità, continua anche nella vita matrimoniale, nel servizio ecclesiale, nella vita sociale, nella professione e nell’impegno politico. La formazione al volontariato deve prospettarsi questa mèta, perché esso non sia solo il sapore di una stagione della vita, ma il colore della propria vocazione».

Il servizio sociale, l’amore del prossimo, la dedizione agli altri, il partecipare a una relazione di aiuto nascono essenzialmente come bisogno.

«Alcuni – esemplifica il vescovo Brambilla -preferiscono parlare con le mani, con il lavoro comune, e questo si esprime come un bisogno impellente di fare qualcosa per gli altri. La nostra società è piena di questi giovani, ma la formazione prevalentemente verbale (anche nei nostri gruppi giovanili degli oratori) poco incline al tirocinio e alla fatica, mette ai margini questo tipo di persone, forse senza saperlo. Ciò non significa che questi ragazzi e giovani non abbiano sentimenti, sogni, progetti, desideri ma, avendo difficoltà ad esprimerli a parole, cercano un’altra via: pensano che li possano vivere con i gesti, con i fatti. È una felice sorpresa vedere come molti, su cui non scommettevamo, li ritroviamo impegnati anche per lunghi periodi in altri luoghi: nella Caritas, nella Croce Rossa, nei Vigili del fuoco. Un educatore armonico deve saper bene interpretare i desideri, le persone, i caratteri, i tipi umani. Dare una mano fa sentire attivi, importanti, protagonisti, ma ciò non va subito interpretato come un tratto sconveniente, bensì va elaborato positivamente. Perché – parola di Vescovo – in quell’ambito ci si gioca il futuro rispetto al quale non è tanto importante domandarsi ‘cosa farò?’ quando piuttosto come sarò?’».

Questa capacità di offrirsi come volontario – il richiamo del vescovo Brambilla – è un dare ma – anche – e contemporaneamente –  un ricevere.

La fatica e la necessità di resisterle, l’impegno e l’obbligo a rispettarlo ‘costruiscono’ la spina dorsale dell’individuo che va al di là dell’identità personale alla quale con troppa frequenza ci si riferisce.

Implicito citare Dominique Lapierre, fecondissimo autore del best seller mondiale, La città della gioia  che dà conto del suo incontro con Madre Teresa di Calcutta.

Ha voluto che sulla sua tomba fosse scritto un proverbio indiano: «tutto ciò che non è donato è perduto».

Questo proverbio richiama l’unico detto di Gesù (non citato nei vangeli) che è giunto attraverso gli Atti degli Apostoli: “c’è più gioia nel dare che nel ricevere”. Come dire che è il dono che corona la vita di gioia.

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