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Che il sistema – così com’è – non funziona era risultato chiaro anche all’allora Pds (oggi Pd) quando stava al governo. Proponendo la riforma dell’articolo V della Costituzione, aveva previsto l’attuazione di un’autonomia differenziata per le Regioni. Non era difficile individuare un briciolo di speculazione politica.

Di lì a pochi mesi ci sarebbero state le elezioni politiche e il tentativo (abbastanza scoperto) era quello di erodere la base elettorale della Lega Nord che faceva del federalismo la sua bandiera. La riforma è stata anche sottoposta a referendum popolare con i “sì” che hanno raggiunto il 64,2% dei voti. I democratici di sinistra hanno, naturalmente, sostenuto il referendum. Come mai, a leggere i commenti di oggi dei vari esponenti dell’opposizione, sembra che il ministro Roberto Calderoli e il governo abbiano proposto una riforma eversiva?

Nicola Zingaretti, probabilmente lasciandosi trascinare dalla polemica politica, ha addirittura evocato il rischio secessione. Una volta smascherata la strumentalizzazione e chiarito il fatto che non vi è nulla di nuovo sotto il sole e che la lista delle materie che risultano trasferibili alle regioni è stata decisa proprio dal PD nel 2001, si tratta di capire com’è possibile attuare concretamente la riforma.

Indubbio che sia positivo attribuire maggiori competenze alle Regioni e dunque assicurare loro un rafforzamento dell’autonomia, a cominciare dalla materia che per eccellenza è sempre stata gestita a livello regionale, la sanità. Oggi le Regioni non hanno che scarsi margini operativi per organizzare un loro sistema sanitario. Intervengono soltanto con norme di dettaglio. E’ lo Stato che ne fissa i criteri anche dal punto di vista organizzativo (caratteristiche degli ospedali, per esempio e reti territoriali, stipendio e reclutamento del personale sanitario). E sempre lo Stato decide al centesimo quanti soldi assegnare a ciascuna Regione.

La preoccupazione di dividere l’Italia in tanti staterelli è del tutto infondata. Piuttosto, occorre fare attenzione a un altro aspetto: verificare che la attribuzione di nuove competenze alle regioni sia sostenibile finanziariamente e ciò per almeno due motivi.

Il primo: per gestire nuove competenze le regioni – ovviamente – devono poter disporre di maggiori risorse. Da dove le prenderanno? Impensabile aumentare la pressione fiscale per cui è lo stato che deve rinunciare a qualcosa e non è semplice.

Seconda questione: la legge approvata prevede che, per garantire i cittadini che vivono nelle regioni più disagiate, vi sia un meccanismo di garanzia, stabilendo un livello minimo di prestazioni garantite per tutti. Si tratta dei cosiddetti LEP che, per l’appunto, sono l’acronimo di “livelli essenziali delle prestazioni”.

Alzare l’asticella delle prestazioni, anche in questo caso, costa. In particolare, in caso di trattenimento di una parte del gettito fiscale per finanziare le nuove competenze, la regione interessata dovrà destinarne una parte al fondo perequativo previsto per le regioni svantaggiate. La riforma potrà funzionare solo se si farà una lista delle priorità mettendo al primo posto sanità e, in generale, tutela della salute.

Roberto Cota

Roberto Cota

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