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Il 22 settembre 2013 don Severino Cantonetti mi invitava a Castiglione d’Ossola a celebrare la chiusura del centenario della nascita del servo di Dio don Giuseppe Rossi, un parroco dell’Ossola, nato nel 1912, nominato fresco d’ordinazione nel 1938 in un paesino della Valle Anzasca, e ucciso barbaramente il 26 febbraio 1945 da una brigata fascista. Don Severino – primo e allora unico successore di don Giuseppe – mi aveva posto tre domande:

Come un giovane parroco d’altri tempi può essere ancora d’attualità?
Come può essere indicato quale modello ai sacerdoti del nostro tempo?
Come e quando potrà essere riconosciuto santo dalla Chiesa?

Quelle tre domande restano ancora attuali, dopo che la Chiesa ha riconosciuto la sua santità, secondo la formula del martirio in odium fidei, cioè per la sua testimonianza cristiana fino al sangue. Se per ragioni storiche sta scomparendo il modello di prete totalmente dedito a una sola comunità, perché è mutata la figura della parrocchia territoriale, definita geograficamente dai confini, non si deve perdere tuttavia il “sugo della storia” della parrocchia, della quale il beato don Giuseppe fu “fulgida gemma”. Al di là degli elementi caduchi restano, invece, alcuni aspetti che possono e debbono essere vissuti anche nella parrocchia d’oggi, in stretto legame con le comunità più vicine. Tre mi sembrano i più importanti.

Un parroco “per tutti”

La figura di sacerdote, che don Rossi incarnava, era quella del parroco “per tutti”. Oggi, forse, è più facile essere preti solo “per pochi, per gruppi scelti”, vivendo la parrocchia come una comunità di adozione o di elezione. Si curano prevalentemente quelli che stanno nei paraggi della parrocchia, si sta volentieri tra chi è già dei nostri, non si sente molto lo slancio per avventurarsi nel mare aperto. Questo rafforza il pericolo tipico del mondo attuale che corre il rischio di vivere senza prossimità: abbiamo tanti vicini e pochi prossimi. Senza prossimità il mondo va verso il gelo assoluto dell’individualismo. La parrocchia d’oggi dovrà cambiare molte forme con cui vive il suo agire pastorale, ma non potrà perdere l’elemento decisivo, che a suo modo caratterizzò il tempo di don Rossi, dovrà cioè essere una comunità “per tutti”.

Nella seconda lettera pastorale, Come sogni la Chiesa di domani? (2013-2014), l’ho scritto chiaramente: non c’è equivalenza tra vicinanza e prossimità. Si possono avere molti vicini (pensiamo a una stazione, a un supermercato, a una festa di quartiere), ma sovente vi sono pochi prossimi. La parrocchia come comunità di vicinato, in cui si abita in ragione del lavoro e della casa, deve diventare una comunità di prossimità. Infatti, la porta della Chiesa è ancor oggi la soglia più bassa, la porta più accessibile: è un segno bello di apertura della comunità a tutti. Questa è la prima cosa che dobbiamo salvare, anzi promuovere. Il parroco, e i cristiani con lui, devono essere maestri di prossimità. Non devono perdere l’odore delle pecore, come dice papa Francesco, cioè la vicinanza alle persone, alla vita quotidiana delle famiglie. Don Rossi è stato certamente un parroco per tutti, anzi ha dato la sua vita per non perdere nessuno. È stato l’icona dell’universalità delle fede cristiana.

Un parroco “per ciascuno”

In secondo luogo, don Rossi è stato il parroco “per ciascuno”. Un altro aspetto che deve permanere, a partire dalla tradizione più che millenaria della parrocchia, anche se stanno cambiando le forme pratiche delle comunità in rete nell’Unità Pastorale Missionaria, è il fatto che la comunità cristiana è uno spazio e un tempo “per ciascuno”. La parrocchia, e dunque anche il parroco, oggi accompagnato da ministri laici e da volontari, non ha solo un orizzonte quantitativo (tutti), ma anche qualitativo (ciascuno). La comunità credente deve saper valorizzare la storia, la vocazione, la ricerca di ciascuno, ha bisogno di curare e promuovere le persone con uno sguardo singolare. Questo è sempre stato il tratto più autentico della parrocchia. Nei brevi anni della sua vita don Rossi fu zelante pastore di famiglie e confraternite, di giovani e anziani. Anche nella sua azione pastorale la comunità non va apprezzata anzitutto per quanto fa, ma per come fa crescere la storia delle persone. Spesso l’iperattivismo della parrocchia, e il correre senza sosta dei suoi preti, va controbilanciato dedicando più tempo alla preghiera e alla contemplazione, all’educazione e alla carità. Il volto di ciascuno può essere custodito solo con cammini singolari e percorsi comunitari, che prendano il passo dei più deboli. Questo diventa importante soprattutto oggi, quando ognuno vorrebbe il prete solo per se stesso.

I preti, e in particolare i parroci, non devono perdere lo sguardo rivolto a ciascuno, alle famiglie, ai giovani e ai vulnerabili. Ecco il secondo valore che la parrocchia e il parroco con i suoi collaboratori promuovono. La comunità cristiana non cura solo le ferite, non è solo ospedale da campo, ma è palestra di umanità e di spiritualità, indica a ciascuno la via da seguire, per costruire la propria storia e la propria vocazione. E per questa via introduce al Mistero santo di Dio che si rende presente in Gesù, nella Parola, nell’Eucaristia e nei Sacramenti. Le parrocchie con i loro parroci hanno aiutato i paesi a costruire la loro storia, la storia delle famiglie e delle comunità civili. Questa è la testimonianza del ministero del parroco, che può giungere anche a dare la sua vita per non tradire nessuno della sua gente. Don Rossi si è fatto tutto a tutti, non è scappato dal paese per salvare se stesso, ma è stato il martire di questa fedeltà.

Un parroco “per i poveri”

Il terzo aspetto che va ereditato dalla parrocchia tradizionale è il “privilegio dei poveri”, dei piccoli, dei vulnerabili. Occorre intendere bene il senso di questo “privilegio”: non significa preferire i poveri contro o al posto degli altri. Bisogna avere a cuore gli ultimi, i piccoli, gli svantaggiati. Occorre partire da loro per renderli fratelli e includerli nella vita delle comunità. Non si tratta tanto dei poveri di beni materiali, né solo quelli delle periferie geografiche e sociali. La carità cristiana non risponde solo ai bisogni, non tratta solo con dignità il bisognoso, ma cerca di liberare i poveri da ogni forma di dipendenza. I veri vulnerabili delle nostre società opulente sono coloro che fanno fatica a costruire rapporti umani, a intrecciare relazioni. Le buone relazioni oggi sono le più penalizzate. Costruire una famiglia che abbia un focolare, dove le parole siano buone ed edificanti, una casa non solo piena di beni sulla tavola, ma capace di trasmettere speranza e fiducia, adatta a far sognare i giovani e stimolarli a pensare in grande, è diventata una sfida cruciale.

La povertà educativa, relazionale, familiare è la grande malattia del tempo presente. Le nostre case sono ricche di beni e povere di significati e valori per vivere. I poveri “spirituali” portano con sé una carenza di umano e un forte deficit nella vita sociale. Per questo dobbiamo cercare di non perdere l’attenzione per la parte più fragile delle persone, in particolare degli adolescenti e dei giovani. Don Rossi nei suoi anni di ministero parrocchiale è stato certamente attento a questo, forse ha dato persino la vita per tanti giovani, che in Ossola hanno lottato per la libertà e per un futuro diverso.

Un parroco “martire”

Bastano questi tre aspetti – mi chiedevano dieci anni fa alla fine della celebrazione del centenario della nascita – perché un giovane parroco, o un cristiano autentico, sia dichiarato “santo”? Allora, senza esitare, come cristiano, teologo e vescovo di Novara, risposi semplicemente: «credo di sì». Oggi la Chiesa lo ha addirittura proclamato “martire”, cioè ha detto che don Giuseppe Rossi è stato un testimone radicale che ha dato la sua vita per tutti, per ciascuno e per i poveri!

Il vescovo Franco Giulio Brambilla

Mons. Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara

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