Il 24 marzo celebreremo la trentatreesima Giornata dei Missionari Martiri in cui vogliamo ricordare tutti quei discepoli del Signore che hanno donato la loro vita all’annuncio del vangelo e al servizio dei fratelli “fino agli estremi confini della terra”. Donne e uomini coraggiosi, certamente. Ma non solo. Non soprattutto. Ciò che li ha spinti è l’amore e non lo sprezzo del pericolo. Erano certamente consapevoli dei rischi ai quali andavano incontro, e, probabilmente, ne hanno avuto paura, tuttavia non hanno desistito, non sono tornati indietro. Sono rimasti inflessibilmente fedeli alla loro missione. In questa giornata di preghiera li vogliamo ricordare.
Fa bene a noi, in un momento storico come l’attuale così confuso e tumultuoso, dove sembra che la ragione stia sempre dalla parte del più forte, del più violento. Ci fa bene ricordare questi esempi per non perdere di vista il fine della nostra vita. Quel costante e sofferto impegno di pace, di riconciliazione, di armonia che dovrebbe trasfigurare tutti i nostri rapporti. Anche i rapporti tra gli stati. Sappiamo che non è facile, che è una sfida. Ma sappiamo anche che non esiste un altro modo autenticamente umano di vivere. Esiste solo quello che Gesù ci ha indicato con la sua croce, e che i nostri martiri hanno così mirabilmente rappresentato.
Abbiamo certamente notato che nei racconti di risurrezione continua a fare la sua comparsa la croce. La risurrezione non mette, dunque, fine a una storia dolorosa? Perché allora questa insistenza? Perché, secondo la rivelazione cristiana, è solo la croce che dà alla risurrezione il suo contenuto. Non è, infatti, una “scappatoia” dalla vita, ma il coronamento di uno stile, di un modo di vivere, quello di Gesù, per il quale l’obbedienza al Padre è consistita nell’assumere la propria responsabilità in favore dell’uomo. Perché il Suo desiderio, che Gesù ha perfettamente incarnato, è stato, fin dall’inizio, quello di mettere ciascuno nella felice condizione di essere veramente se stesso nella relazione con Lui, con gli altri e con tutte le cose. È il diavolo, infatti, il divisore a suggerire l’idea, troppo spesso trasformata in convinzione, che la felicità consiste nell’accumulo, ma più ancora nel dominio, nell’esibizione e che chi serve, si sacrifica, condivide, lotta per la giustizia, la verità, la bellezza è solo un illuso e un fallito.
E non è così. La vita donata non è una vita persa!
Questo giorno coincide con il ricordo del martirio di San Oscar Romero, Arcivescovo di San Salvador, avvenuta nel 1980. Il suo impegno accanto al popolo salvadoregno in lotta con un regime dittatoriale, indifferente alle condizioni miserande dei più deboli e dei lavoratori, lo hanno reso un punto di riferimento non solo per il suo popolo, per l’America Latina, ma per tutta la Chiesa. La sua figura affascina ancora oggi i giovani, perché incarna lo stile di una vita cristiana radicata nella Parola, e interamente spesa per le sorelle e i fratelli rimasti ai margini della società. Dal suo esempio il Movimento Giovanile Missionario, oggi Missio Giovani, lanciò, a suo tempo, l’idea di istituire la Giornata dei Missionari Martiri per ricordare, con Mons. Romero, tutti coloro che hanno percorso sino alla fine la stretta via del discepolato cristiano.
In questo anno è stato scelto come tema “Andate e invitate”. Il riferimento è al brano del Vangelo di Matteo che ci ha accompagnato durante tutto l’ottobre missionario. È il comando che il re dà ai servi perché vadano, dopo il rifiuto degli invitati della prima ora, a raccogliere tutti, anche coloro che stanno ai crocicchi delle strade, perché prendano parte al banchetto del Regno. In particolare, i due verbi ci ricordano che la missione è un andare instancabile verso tutta l’umanità per invitarla all’incontro e alla comunione con Dio. Un Dio grande nell’amore e ricco di misericordia, che è sempre in uscita verso ogni uomo e ogni donna per chiamarli alla felicità del Regno, malgrado l’indifferenza o il rifiuto.
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Padre Massimo Casaro, direttore del Centro missionario diocesano