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Una “nuova” legge su bullismo e cyberbullismo, serve davvero? È questa la domanda che ci stiamo ponendo da quando, negli ultimi giorni di giugno la Commissione Giustizia di Montecitorio ha approvato la nuova proposta di legge, pronta a passare alla Camera dei Deputati per il primo passaggio del lungo iter di approvazione.

Sembra paradossale che il dubbio provenga proprio da Fondazione Carolina, nata in memoria di Carolina Picchio, ispiratrice della prima legge in Europa in materia di cyberbullismo, approvata il 17 maggio 2017 e dedicata da tutto l’emiciclo alla ragazza mancata nel 2013 a causa delle vessazioni online. Una standing ovation commovente alla presenza del padre, Paolo Picchio, accompagnato dallo stesso gruppo di lavoro che, di lì a pochi mesi più tardi, avrebbe costituito Fondazione Carolina.
E dunque? Cosa costa per poter accogliere con entusiasmo questo primo traguardo istituzionale di un testo che si distingue per il carattere sanzionatorio e per l’introduzione del concetto di bullismo nel panorama giuridico nazionale. Le motivazioni sono molteplici, la prima quasi grottesca. Avviare un nuovo iter legislativo, senza aver dato gamba, fiducia e risorse alla legge 71 non rappresenta soltanto uno spreco, bensì un danno evidente in termini di know how e, soprattutto, di indirizzo rispetto ai bisogni e al disagio che tocca le nuove generazioni.Invece ci ritroviamo in un testo del 2023 la definizione di “bullismo”. Roba che neanche De Amicis.

Un testo, quello della proposta di legge, che parla di reato in relazione a episodi di bullismo e cyberbullismo, quando questi sono piuttosto condotte che, eventualmente, possono portare a configurare fattispecie di reati. Come da sempre sostiene la Polizia Postale. Mentre, ancora una volta, la politica insegue la cronaca e si basa sui titoli per capire dove andare a parare e mettere cerotti senza pensare ad una soluzione realmente efficace. Ed ecco che sono diventati tutti bulli! Quelli che sparano proiettili di gomma all’insegnante. Quelli che costruiscono a tavolino false fotografie delle compagne per poi diffonderle in rete, per alcuni perfino l’accoltellamento di una docente. Tutto sembra trovare posto sotto il cappello del bullismo e del suo cugino digitale. Eppure rubare una merenda non può essere equiparato a prendere a calci una cattedra o, peggio, un professore. D’altro canto dare dello ”sfigato” ad un compagno nella chat di classe non può valere quanto furto di identità o istigazione al suicidio.

Questo bisogno ossessivo di agglomerare i problemi con la sicumera di risolverli con una misura unica si scontra con la logica dei compartimenti stagni che separa nuovamente il bullismo dal cyberbullismo. Noi di Fondazione Carolina crediamo che il problema sia altrove. Bisogna partire dal basso, da quello che gli antichi chiamavano “agone”, ovvero il campo dell’arena. Lì, accanto ai ragazzi, nel cuore della sfida quotidiana più importante: crescere.

Per loro non esiste distinzione tra reale e virtuale, tra bulli e cyberbulli. Noi li pensiamo al sicuro delle loro camerette, invece sono liberi di navigare in un oceano digitale che noi adulti conosciamo solo in parte. Per questo riteniamo che, oggi come oggi, non possa nascere un provvedimento così cruciale per le nuove generazioni, senza un loro coinvolgimento.

Proprio la logica della concertazione, del confronto e ancor prima dell’ascolto, era al centro della legge dedicata a Carolina. Informazioni, strategie, risorse e programmazione avrebbero dovuto poggiare sul quel Tavolo interministeriale coordinato dal Ministero dell’Istruzione, aperto agli addetti ai lavori e alle aziende new media, con il fine di stabilire delle linee guida finalmente efficaci a tutte le scuole e ai luoghi educativi.

Le forze in campo ci sono, gli strumenti anche.
Eppure, quando si parla di ragazzi, si arriva fino ad un certo punto e poi si decide inesorabilmente di tornare indietro e ricominciare tutto da capo. Una inspiegabile sindrome di Penelope dalla quale ci sentiamo molto distanti.

Ivano Zoppi, presidente di Pepita Onlus

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