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Durante i miei brevi anni di Brasile, ho avuto l’onore di conoscere il più grande artista sacro brasiliano, Claudio Pastro (1948 – 2016) e di ammirare la sua produzione, soprattutto quel gioiello che è diventato il santuario nazionale di Nossa Senhora Aparecida. Ebbene, un giorno mi stava raccontando dei suoi primi passi come artista, e per farmi intendere le difficoltà che ha dovuto affrontare, mi ha riportato l’affermazione di un importante vescovo brasiliano dell’epoca (credo fossero gli anni 70), secondo il quale l’arte è un “prodotto borghese”.

Già l’uso di questo termine dovrebbe metterci in allarme. Ma quello che più colpisce è la straordinaria incapacità di questo vescovo di porsi alla vera altezza dell’uomo. Certo, erano gli anni difficili della dittatura e il Brasile era afflitto da una povertà diffusa e vergognosa, tuttavia ciò non dovrebbe condurre sulle secche di un riduzionismo mortificante proprio quell’uomo che si pretende promuovere, tutelare, servire.

Vorrei citare alcuni esempi virtuosi, e che fanno onore all’America Latina, del ruolo che l’arte può e deve giocare in ordine al riscatto della coscienza umana.

Sono il progetto El Sistema del maestro Antonio Abreu in Venezuela, il progetto Sonidos de la Tierra del Maestro Luis Szarán in Paraguai e l’Istituto Baccarelli in Brasile. Tutti e tre usano la musica classica come strumento di “promozione umana”. La maggior parte dei giovani musicisti coinvolti provengono, infatti, da situazioni economiche e sociali disagiate, e tramite la disciplina musicale hanno la possibilità di sfuggire alle logiche nichiliste dei barrios e sono posti nella felice condizione di poter ascoltare, forse per la prima volta, se stessi.

Non dobbiamo cedere alla povertà, alla miseria. Le dobbiamo contrastare. E non solo con progetti sociali o un’audace e saggia azione politica, ma lo dobbiamo fare anche, forse soprattutto, con la cultura. La cultura della Bellezza. Ebbene, quando si entra nel Santuario di Nossa Senhora Aparecida si rimane come folgorati. Osando un paragone, credo sia una sensazione analoga a quella che provarono gli emissari del gran principe Vladimir di Kiev quando entrarono nella cattedrale di Santa Sofia a Costantinopoli.

«Non è possibile dire – confessarono una volta tornati in patria – se ci si trovava in cielo o un terra, ché non v’è sulla terra una simile visione, né una tale bellezza; siamo incapaci di narrare, ma, e solo questo sappiamo, che in quel luogo Iddio convive con gli uomini e che il loro ufficio è superiore a quello di tutte le altre nazioni. Non è possibile per noi dimenticare tale bellezza; ogni uomo che ha assaporato la dolcezza, l’amaro di poi disdegna; similmente anche noi qui non possiamo più vivere».
I popoli slavi furono convertiti dal bello e da allora la bellezza, quel «toccare Dio con i sensi», ha contrassegnato il loro cammino, nella fede e nell’arte.

Sine Dominico non possumus, senza celebrare il giorno del Signore non possiamo più vivere, hanno confessato i martiri di Abitina. Come gli emissari del gran principe Vladimir non potevano più vivere senza la Bellezza. Quella Bellezza.

Claudio Pastro ci ha messo del suo. Ci ha messo la sua abilità, le sue radici di artista brasiliano, misticamente condotto dal riconosciuto apporto della tradizione iconografica bizantina e romanica. In effetti, quello che ammiriamo in Aparecida è questo mirabile connubio. La felice combinazione di Tradizione e creatività. Bisognerebbe entrare più nel dettaglio per meglio illustrare la ricchezza di un apparato iconografico che nel medesimo tempo rapisce ed educa. Conduce. Nulla è lasciato al caso, come nulla è soggetto allo strapotere dell’immaginazione, di una creatività illimitata e ondivaga. Tutto, al contrario, è ispirato. E l’esito è stupefacente.

Un equilibrio dinamico che lascia intravedere la Ragione, il Principio che ha ispirato l’autore. Che ha ispirato la sua intera esistenza.

Potremmo quasi affermare che è una Liturgia per immagini, una Biblia pauperum in cui la creazione artistica non prevarica il contenuto, il messaggio, ma gli offre un “corpo”.

I piccoli, gli ultimi, i semplici, i poveri, soprattutto nel passato, troppe volte non sapevano leggere, ma hanno sempre saputo vedere.

Padre Massimo Casaro

Don Massimo Casaro, direttore del Centro Missionario della Diocesi di Novara

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