Uomini «del Vangelo», «dell’Eucaristia» e «della fraternità». Il ritratto in tre colpi di pennello dei sacerdoti, secondo il vescovo Franco Giulio Brambilla. Lo ha fatto nella Messa crismale di giovedì, nella quale si consacrano gli oli santi e i preti rinnovano le promesse sacerdotali. «Forse l’ultimo Giovedì Santo del mio ministero episcopale tra voi», ha detto Brambilla, che a giugno compirà 75 anni e che al termine della celebrazione ha fatto dono a tutti i presbiteri della raccolta degli interventi del suo ministero novarese (altro servizio alle pagine 20-21), indicando tre «impulsi più importanti per la vita del prete sulla soglia del Giubileo del 2025».
Anzitutto quello legato alla Parola. «Il Vangelo – ha detto – è ascolto e passione per il mistero di Dio, è preghiera e amore per la vita delle persone. Spesso si scambia il Vangelo con il nostro narcisismo, quando siamo mossi dalla continua ricerca di approvazione e ammirazione, quando facciamo anche cose belle, ma esse diventano come diamanti per la nostra corona di gloria; quando abbiamo bisogno di specchiarci in Facebook o in Instagram, e quando il nostro è un ministero preoccupato della propria immagine». E allora, «Il prete è uomo del Vangelo, quando il suo ministero è umile e duttile, si lascia educare il cuore, riserva spazio a sé e agli altri, è capace di ascolto e di preghiera, preferisce arrivare un giorno dopo con una persona in più, assume il ritmo dei preti vicini, coltiva un senso profondo di fraternità, si lascia animare dalla carità verso i piccoli e i poveri».
Poi il rapporto con l’Eucaristia celebrata. «Proviamo a vedere come celebriamo la nostra messa. Il rito che celebriamo è un’insidia grande: basta aprire il messale ed è tutto pronto. Chi di noi durante la settimana prepara la messa, leggendo prima il rito, formulando in modo sobrio la preghiera dei fedeli, scegliendo un segno essenziale, predisponendo con decoro la chiesa? Con chi prepariamo la celebrazione dell’Eucaristia? Proviamo a vedere se la messa non è diventata nostra proprietà, e non è più la divina liturgia della Chiesa, perché decidiamo noi che cosa fare, come imbellettarla e renderla stravagante, magari seguendo mode che assolutizzano un aspetto del rito fino a farlo diventare l’unico». Con una sottolineatura più volte ribadita durante l’intero suo episcopato: «Non siamo noi a dover cambiare la messa, ma è la messa che cambia noi! Lo dico serenamente per l’ultima volta: tutti gli estremismi mettono in luce le nostre paure e le nostre paturnie, non la docilità alla grande Tradizione della Chiesa!».
E infine l’ultimo nodo sciolto dal vescovo nella sua omelia. «Il prete è l’uomo della fraternità e della carità! Perché vive una vita capace di prendere il respiro dei fratelli e della gente. Il tempo perso a stare insieme, ad ascoltare, a pensare in comune, a discutere, a smussare i propri punti di vista, pur geniali, a trovare vie di convergenza, non esigono una forte docilità allo Spirito? Il tempo dedicato a stare con i giovani e con le famiglie, a sentire e curare le povertà materiali e spirituali, non è l’atmosfera più autentica che ci fa trovare il senso della vita fraterna, la paternità del ministero che si curva sulle ferite dell’umano per sanare l’umano piagato e disperato?».
La conclusione è dedicata a don Giuseppe Rossi. «Guardiamo con sincerità alla nostra immagine pratica di prete sulla soglia del Giubileo, mentre il prossimo 26 maggio qui nel Duomo di Novara sarà beatificato un giovane prete, don Giuseppe Rossi, “icona di un parroco martire”. Celebrando la sua beatificazione dobbiamo fare come lui, che non ha abbandonato la sua gente per servire il Dio vivo e santo».
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