Condividi su

Laura Fasano, Vice direttore Emerito de Il Giorno
Laura Fasano, Vice direttore Emerito de Il Giorno

Eccoci – come ogni anno – a cerchiare di rosso la data del 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sessuale. Ogni anno, per un po’ si parla di questo. Si commemora, si compatisce, si gettano alti lai, i politici fanno dichiarazioni roboanti, qualcuno annuncia convegni sul tema. Prima era solo l’8 marzo, ora abbiamo anche il 25 novembre: due giornate su 365 giorni per ricordare diseguaglianza, violenza, sessismo, misoginia e quant’altro. Ostacoli più o meno visibili che compongono la vita quotidiana delle donne, tutto l’anno, da lunedì alla domenica, festività incluse. Di questi tempi i palazzi istituzionali si tingono di arancione, fioriscono le panchine rosse, le buone intenzioni si sprecano. Ma la vita delle donne è molto di più di questo e pretende di più. Merita un cambio di passo e di mentalità che sia quotidiano e che includa anche gli uomini. Anche loro infatti dovrebbero sentirsi coinvolti nel realizzare una società che non umili e discrimini le donne. Che, a guardar bene, sono le loro mogli, madri e figlie.

Dovrebbero essere i primi ad avere orrore di chi usa violenza di ogni genere sulle donne.

In questo quadro immutabile le donne hanno cambiato mentalità e provano a fare rete. Nel frattempo alcuni uomini impugnano armi e rabbia per distruggere indipendenza e desideri. Nel migliore dei casi. Senza trovare intorno a sé l’ostracismo determinato degli altri uomini. E forse per questo i femminicidi marciano a passo di clava. Lo sappiamo, non si tratta della normalità. C’è anche una parte sana della società maschile che non si unisce né supporta la violenza sessista in nessuna sua sfumatura. Ma la stragrande maggioranza non si sente coinvolta nel contrasto attivo ad essa.

Se l’Istat rivela che per un uomo su quattro lo stupro è colpa di come si vestono le donne, la strada è lunga e in salita. Tutto deve cambiare: gli stipendi come le pubblicità offensivamente sessiste, le opportunità di carriera perché una donna che lavora non è per forza aggrappata agli ultimi gradini della scala economica.

Le verità è che andiamo avanti ogni giorno, lottando sui dettagli, tutte quante, day buy day. Qualcuna ce la fa, ma individualmente. Alcune (troppe) muoiono. La maggioranza subisce soprusi e discriminazioni e nemmeno lo sa.

Cosa fare? Occorre prendere posizione, quotidianamente, con determinazione e forza contro ogni atto di becero cameratismo, di voyeurismo, di revenge porn, di stalking, di possessione, di denigrazione, di oggettivazione.

Per battere la violenza sulle donne, oltre a un cambiamento culturale, c’è bisogno di fondi: bisogna investire soldi e contemporaneamente affrontare la resistenza delle famiglie a mettere in discussione i ruoli di genere. Non ci sono le risorse economiche, ma non c’è neppure la volontà. I centri antiviolenza sono sistematicamente definanziati, nonostante siano l’unico approdo possibile per chi si sottrae ad un rapporto basato sull’abuso. I fondi previsti dai governi (tutti i governi) anche se in crescita nel corso degli ultimi anni, non sono sufficienti ma soprattutto arrivano a singhiozzo.

Allora è più facile piangerci da morte, affidarsi alla buona volontà: di chi? Se ogni volta (oltre il 25 novembre) si prova a parlare di violenza contro le donne arriva un povero di spirito a dire che bisognerebbe essere “contro tutta la violenza” e che “anche le donne sono violentissime”. Oppure dire alle donne, genericamente, che devono denunciare. E le donne denunciano. A volte. Ma siccome non ci sono abbastanza strutture protette è facile che il compagno (o l’ex compagno) le aspetti sotto casa e le ammazzi proprio perché hanno denunciato. Per non parlare di quelle che lasciano il compagno per motivi che non sono la violenza e finiscono comunque morte.

Ci sarebbe poi da parlare dell’educazione ai sentimenti che dovrebbe essere obbligatoria in ogni scuola di ogni grado, dell’ inasprimento delle pene, della prevenzione, del rinnovo statale del piano antiviolenza, della formazione delle forze pubbliche. Insomma le cose da fare sono infinite, ma possibili, se c’è un reale impegno.

Perché non bastano più le parole di circostanza, sempre le stesse che si usano in questi casi, mentre il malessere sociale nel quale si sviluppa la violenza sta crescendo. Non bastano le azioni, poche e con scarse risorse, da parte delle istituzioni fingendo di non capire che il problema non è il post, ma il pre, il problema è come prevenire ed essere veramente di aiuto. È necessario incentivare le campagne di sensibilizzazione, dare il segno che c’è qualcuno a cui rivolgerti e di cui puoi fidarti nel momento in cui subentrano casi di maltrattamenti, violenze e percosse. Certo serve una normativa o meglio un’applicazione della normativa più stringente: in molti casi di violenza, la persona che la compie ha già subito dei procedimenti restrittivi, è conosciuta, ma non si riesce ad impedire che si avvicini continuamente alla vittima. E occorre mettere in capo una cultura delle relazioni che parta dalle scuole, dove il rispetto, la convivenza, il rifiuto di ogni forma di abuso ne devono essere il cardine.

In un tale panorama chissà se due giornate l’anno e un po’ di riflettori bastano. Meglio di niente. Ma certo non bastano, finché gli uomini non si sentiranno direttamente coinvolti in questa battaglia di uguaglianza nella mentalità e nei comportamenti il traguardo non si taglierà mai. E poi da domani si parlerà d’altro. Parleremo del Natale, dei regali, di cosa si fa per Capodanno, qualcuna morirà anche sotto le feste ma ci faremo meno caso perché il 25 novembre è passato e se ne riparla fra un anno. Perché parlare di morte fa brutto?”.

Condividi su

Leggi anche

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)
Diocesi

Martiri, quella follia d’amore che fonda la libertà dell’altro

Don Massimo Casaro

(Foto Alessandro Visconti)
Editoriali

Un 8 marzo meno folkloristico ma con più consapevolezza

Laura Fasano

Paolo e Francesca in un quadro di William Dyce - William Dyce, Public domain, via Wikimedia Commons
Editoriali

Donne e rispetto, le scarpette erano già rosse col patriarcato dell’antichità

Raffaele Fattalini