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Il penultimo comunicato delle Brigate Rosse – il numero 8 – reca la data del 24 aprile. Ribadisce che Aldo Moro «è un prigioniero politico e il suo rilascio è possibile solo se si concede la libertà ai tredici prigionieri comunisti tenuti in ostaggio nelle carceri del regime». Mario Rossi è uno di loro. È il fondatore e il leader della “XXII ottobre” – organizzazione sovversiva genovese, autoproclamatasi erede dei Gap partigiani, paladina della lotta armata – ed è rinchiuso all’Asinara. Sta scontando l’ergastolo per l’omicidio del portavalori Alessandro Floris e per ottenere la sua scarcerazione le Brigate Rosse, già nell’aprile del 1974, avevano organizzato il sequestro del magistrato genovese Sossi, pubblico ministero nel processo alla “XXII ottobre”.

Rossi ora è un uomo libero. Nel 2002 ha lasciato il carcere di via Sforzesca ed è curatore, a Novara, del Museo di Storia naturale “Faraggiana Ferrandi” di Novara.

«Dopo vent’anni di ricostruzione museale e trentuno di detenzione, la metà dei quali in regime di articolo 90 aggravato, ormai vivo di ricordi, ma non di rancori. Brigatista ero e brigatista sono rimasto» dice mentre mi mostra un raro esemplare di leone berbero dal manto platinato. La passione per la natura, mai abbandonata, lo ha spinto – «una volta fuori» – a realizzare un pezzo di futuro, a mettere un tassello convenzionale nel progetto della sua vita.

«Sono un imbalsamatore, un morfodermista: modello e plasmo la pelle degli animali». Un’abilità affinata negli anni giovanili, nei laboratori dei musei di Storia naturale di Genova e Milano. Anni in cui Rossi inizia anche la militanza che lo porta a considerare la violenza «parte della democrazia» e a costituire, con alcuni compagni, il Gruppo XXII ottobre. Lo scopo è «organizzare una resistenza per contrastare, anche attraverso la lotta armata, un eventuale colpo di stato».

La parabola criminale dell’organizzazione inizia e termina, tra il 1970 e il 1971, con il sequestro di Sergio Gadolla e la rapina all’Istituto Autonomo Case Popolari (IACP).

«Sapevo che, prima o poi, la nostra storia si sarebbe conclusa. Non mi aspettavo, invece, l’opposizione di quel giovane fattorino».

Alessandro Floris, che trasporta la borsa contenente il denaro, cade vittima dei colpi di pistola sparati da Rossi. La ferocia di quegli istanti viene immortalata da un fotoamatore che, dalla finestra della sua abitazione, assiste all’agguato. L’arresto in flagranza, dopo un vano tentativo di fuga, sposta gli obiettivi: non più «la costruzione politica del Gruppo» ma «l’evasione».

Evadere, per Rossi, significa «continuare a lottare, a organizzare la Resistenza».

Su indicazione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa i dirigenti delle BR – e Rossi con loro – vengono sistemati all’Asinara «nella diramazione di Fornelli, una delle dieci in cui è suddiviso il penitenziario sardo», che verrà poi distrutta durante la rivolta delle “moka detonanti”, nel ’79.

La spaccatura fra estremismi ideologici si estende sempre più e contamina di brutalità il Paese.

«L’allerta è massima, ciononostante riesco a stabilire contatti con i detenuti nei vari penitenziari e a mantenere un rapporto diretto con alcuni compagni che stanno fuori». La notizia del sequestro di Moro giunge a cose fatte e apre un fronte di dibattito nell’organizzazione. Mentre all’esterno infiamma la trattativa, i dirigenti delle BR detenuti ipotizzano, come base per la negoziazione, la chiusura del carcere. Poi, però, fanno un passo indietro e cercano di non farsi coinvolgere. A riferirlo, alla Commissione parlamentare d’inchiesta – sarà Alberto Franceschini, quarant’anni dopo. Rossi, dal canto suo, ritiene che Moro possa essere salvato, per questo stende «un documento e ne chiede il rilascio. Il Comitato dell’Asinara lo respinge «perché antipartitico».

Qualcuno ha già deciso: Moro deve morire.

«A volerlo vivo – osserva Rossi – eravamo solo noi».

Le Brigate Rosse, però, non furono costrette ad ammazzarlo. Il “partito della non trattativa” fu, di fatto, solo un paravento. Per salvare Moro di negoziazioni ne furono fatte e molte. Ci fu la trattativa del Vaticano. Due trattative del partito socialista, – una a Roma e una a Milano. E pure la trattativa del partito comunista che si rivolse a Tito e ad Arafat. Insomma, segretamente si mossero tutti.

Sul fatto poi che, dopo il sanguinoso epilogo, in molti mirassero a togliere alle Brigate Rosse la “paternità” degli avvenimenti legati al sequestro e all’uccisione dello statista democristiano, Rossi è inamovibile: «Dietro alle Brigate Rosse c’erano le Brigate Rosse. Qualcuno ci ha definiti “burattini nelle mani dei servizi”: io ritengo non sia vero. Nessuno ci ha condizionato, nessuno ci ha coperto. Cossiga, da uomo intelligente quale era, lo capì. Ed essendo persona meno ipocrita di tante altre disse come stavano le cose: “Quando la storia non combacia con le proprie scelte ideologiche, si esercita la fantasia. E si ha quella specifica forma di storia che si chiama dietrologia. Moro è stato ucciso dalle Brigate rosse, un fatto tutto italiano. Una cosa interna alla sinistra italiana e alla storia della Resistenza”».

Dopo aver girato tutti gli istituti di pena, Rossi venne trasferito a Novara. «Mi portarono in catene da Nuoro, dal penitenziario di massima sicurezza Badu ‘e Carros, insieme a tanti altri. Era il 1983. Subito mi parve un carceretto piccolo ma si rivelò uno dei più duri. La regola era “evadere o morire”: io ero abituato a lavorare per evadere. Scavavo. Bucavo muri e pavimenti. Realizzai presto che in via Sforzesca non lo potevo fare. Il cemento era speciale. Le sbarre erano speciali. Tutto speciale in un carcere speciale. Soltanto il mio tagliaunghie era normale. Avrei dovuto tenere duro ancora per molti anni. Mi convinsi che l’ergastolo sarebbe stato la mia sorte. Così non fu. E nel caos della vita trovai a Novara la mia opportunità».

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