La quinta puntata della nostra rubrica dedicata al Giubileo della Speranza. Un piccolo approfondimento e una breve meditazione sui temi che l’Anno Santo mette al centro del percorso della comunità ecclesiale, sulle sfide per tutta la società civile e su come ogni fedele può essere interrogato dalla “Speranza che non delude”.
Nel primo Millennio il giubileo è stato fortemente intrecciato con la storia della penitenza cristiana, che pone la domanda cruciale: è possibile riconciliare il battezzato peccatore? Possiamo scandire tre momenti storici.
La tradizione giudaica
Con il trascorrere del tempo, la tradizione ebraica e in particolare il giudaismo prima e dopo Gesù, ha messo sempre più in rilievo la dimensione interiore del giubileo, valorizzando atteggiamenti quali la pietà e la misericordia e invitando a quella liberazione costituita dalla purificazione del cuore e dalla remissione dei peccati (cf Lv 16, 29-31). Un testo interessante dell’interpretazione interiore e spirituale del giubileo si trova nel Libro dei Giubilei, scritto intorno al 110 a.C., in cui si mette l’accento sulla conversione e sul rinnovamento dell’alleanza. Si può rimandare anche al IV Libro dei Maccabei e a Filone d’Alessandria oltre che ad uno scritto neotestamentario, la Lettera agli Ebrei.
La penitenza cristiana
Dagli inizi dell’era cristiana fino al VI-VII secolo la remissione dei peccati commessi dopo il battesimo era, al contrario di quanto avvenne in seguito, un processo lento e laborioso. Il penitente doveva sottomettersi alla penitenza detta “pubblica”, o “canonica”, riferita soprattutto ai peccata “mortalia” o “graviora” (idolatria, apostasia, omicidio, adulterio, ma anche altri). Era definita laboriosus baptismus, un ritorno faticoso e oneroso alla novità del battesimo.
Essa era costituita da questi elementi: si andava dal vescovo, al quale si confessava il peccato per ottenere la penitenza corrispondente; la riconciliazione avveniva dopo aver compiuto una penitenza onerosa, che poteva durare anche diversi anni, ma talvolta veniva rimandata dal penitente, perché in pericolo di morte si otteneva comunque l’assoluzione; non c’era la possibilità di distinguere tra colpa del peccato e pena del peccato, poiché la penitenza aveva come scopo la piena espiazione del peccato, in sé e nelle sue conseguenze, con la purificazione e guarigione dell’anima; la partecipazione della comunità cristiana si esprimeva mediante la preghiera dei fedeli e l’intercessione dei martiri.
La conversione del battezzato peccatore era un percorso che sottolineava più che il “dire” il peccato, la trasformazione della vita attraverso forme di penitenza (digiuno, preghiera, pellegrinaggio). Si veniva inscritti addirittura in un ordo paenitentium. Poiché era tutta la chiesa che partecipava al cammino del penitente, talvolta per la preghiera della comunità e per le “suppliche” liturgiche fatte dai sacerdoti era rimessa una parte della penitenza. Fino al VI-VII secolo, tuttavia, la remissione dei peccati è stata un processo unitario ed ecclesiale.
La penitenza privata
Durante i secoli VII-XI la penitenza cristiana va in crisi ed è rimandata in extremis, proprio per la sua difficoltà. Isidoro di Siviglia (ca. 600) testimonia una situazione di passaggio: egli non vuole escludere dall’Eucaristia coloro che non sono in una situazione grave di peccato. In poco tempo, però, la penitenza perde il carattere ecclesiale del periodo antico, subendo una trasformazione assai complessa. Alcuni cambiamenti hanno costituito una preparazione per l’istituzione delle indulgenze propriamente dette.
A partire dal VII secolo la penitenza “privata”, diffusa dai monaci irlandesi in pellegrinaggio sul continente europeo, ebbe il sopravvento sulla penitenza “pubblica”. La prima si differenziava da quella pubblica per il fatto di collocare la riconciliazione (assoluzione) subito dopo la confessione al monaco-sacerdote e prima di “soddisfare” la penitenza (satis facere, fare abbastanza). Da questa distinzione e separazione tra confessione/ assoluzione/soddisfazione derivò la possibilità di distinguere tra “colpa” del peccato (rimessa dalla riconciliazione/assoluzione) e “pena” per riparare il peccato (per soddisfare la quale occorreva compiere la penitenza).
Il risultato è stato duplice: l’accento si sposta dalla penitenza, intesa come processo personale ed ecclesiale di conversione per superare il peccato (e le sue condizioni concrete), alla fatica o vergogna (erubescentia) di “dire il peccato” per ottenere l’assoluzione; la penitenza, d’altra parte, si stacca dal cammino di conversione interiore e diventa come un pegno da pagare per riparare la colpa, quasi una “tassa” per l’assoluzione ottenuta, così che viene detta anche penitenza “tariffata”. Il peccato è un affare soprattutto dell’anima, mentre la pena della colpa richiede una riparazione materiale che mette in gioco il corpo. Nel volgere di qualche secolo cambierà anche il nome, con una differenza solo di scrittura, ma non di pronuncia: dalla paenitentia (dal verbo paenitemini – convertirsi) alla poenitentia (dal termine poena – pena).

Mons. Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara
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