Mottarone, il battesimo sugli sci, la vista lago mozzafiato. E il trenino a cremagliera, la tragedia della funivia. Questa è la cifra con cui si presenta, in epoche diverse, la classica montagna a portata di novaresi e milanesi, con i primi fuoriporta e i fine settimana. Ma anche le scalate dei cicloamatori e dei campioni professionisti, come Vittorio Adorni che sulla vetta conobbe Vitaliana figlia dell’albergatore Erbetta. E la sposò.
Poi c’è un altro Mottarone, attorno al quale è fiorita nei secoli una narrazione poco conosciuta. E’ “Le vigne del Mottarone” a raccontarla, con “La storia della viticoltura tra il Vergante e il Cusio”. Il titolo del volume a cura di Claudio Colombo. Un viaggio in un mondo d’antàn che non è hobby o folclore. Ce lo propone la “Compagnia della Rocca Edizioni”, 256 pagine che non profumano soltanto di carta stampata, ma ci rimandano a un’agricoltura d’altri tempi, ai sapori e saperi contadini, ai tini, alle botti, alle brente e alle cantine ricavate nella montagna. Alle schiene curve sui tralci e ai trionfi delle vendemmie, ai momenti di socializzazione in mezzo ai filari. Colombo, che si definisce “un professore vignaiolo” è insegnante all’Istituto Alberghiero Giulio Pastore di Varallo Sesia. Un docente che, ai banchi e alle cattedre, ha sempre alternato la passione per le terre d’origine (la nonna era di Brovello, nel Vergante). “Alla zappa – scrive – ho così affiancato la penna. Per me, si trattava di una necessità impellente. Era urgente tornare alle origini e analizzare quello che si era fatto nei secoli passati. L’abbandono delle campagne era (ed è) sotto gli occhi di tutti. Perché – si chiede l’autore – siamo scesi così in basso?”
Così si è iniziata la ricerca, un percorso a ritroso che ha portato Colombo a ricomporre il mosaico delle sue genti. “Insomma – osserva – la storia della vigna è storia nostra di cui dobbiamo andare giustamente fieri…”. Ancora: “E’ la terra con i suoi valori la base di qualsiasi sviluppo e ogni giorno ci accorgiamo, leggendo la cronaca, che dove il territorio è abbandonato, troviamo automaticamente frane, scoscendimenti, alluvioni, incendi e rovina. In un contesto come quello montano, l’agricoltore giunge prima e meglio: non è questione di terreni ma di volontà e capacità…”.
Ecco, il viaggio del Mottarone prende le mosse da queste considerazioni, partendo dalla preistoria della viticoltura nel mondo per arrivare sino alle pendici della montagna e dintorni. Il percorso ci restituisce l’immagine di un mondo contadino povero di disponibilità, ma ricco di risorse familiari e sociali. Quando la coltivazione della vite rappresentava, con altri appezzamenti agrari, una delle fonti di guadagno, cadenzate dai ritmi stagionali. Il volume si avvale di una iconografia significativa, con immagini in bianco e nero che ci riportano ai momenti della lavorazione dell’uva, alle tracce (ancora esistenti) di muretti a secco, casotte per gli attrezzi, antiche osterie. Ancora: carri trainati dai buoi, tini, foto di gruppo di vendemmiatrici. E’ anche uno spaccato di una società che ruotava sì attorno a quella montagna sacra, ma al tempo stesso guardava oltre. Perché con la crisi dell’agricoltura – siamo nell’Ottocento – i contadini si ritrovarono ai limiti della sussistenza e tutta l’area del Mottarone conobbe un forte fenomeno migratorio. Svizzera, Germania, Francia, le mete più agognate, dove gli ex viticoltori o i loro figli cercarono e trovarono fortuna come cuochi, scalpellini, muratori, ombrellai.
E’ il quadro fotografico del Vergante che emerge in terre lontane. Mentre quelle di casa non sono lasciate al gerbido. Anzi, a coltivarle rimangono le spose, le madri, le figlie, in attesa del ritorno dei loro cari. Nel’900, soprattutto dopo la seconda guerra, la svolta: l’agricoltura cede il passo alla villeggiatura, alle seconde case, al turismo. A poco a poco, la coltivazione della vite diventa marginale, quasi casuale. Consegnata ai ricordi e a una storia che è bene non dimenticare per capire da dove veniamo e stiamo andando. A distanza di anni – scrive l’autore – è ben presente il ricordo dei contadini considerati quasi una nullità. “Nessuno erano quelli che si toglievano la pelle nei campi, nei prati e nelle vigne del Conte…Tredici, quattordici ore a dissodare il terreno, a tagliare il prato, a zappare la vigna per un franco (una lira) al giorno e una zucca di vino acido…E quando arrivavano a casa, la sera, c’era una saracca appesa con il filo al soffitto, per insaporire quella fredda fetta di polenta che trovavano sul tavolo…”. Eppure, qualcosa è rimasto. L’anagrafe vitivinicola dice che oggi, ad esempio attorno ad Arona, c’è la presenza di uva da tavola Isabella per 1.196 metri quadrati; a Lesa 7101 metri di Merlot; a Brovello Carpugnino 1300 di Traminer aromatico. Quest’ultimo è il frutto dell’impegno dello stesso autore, che, con un gruppo di appassionati, ha voluto resuscitare la coltivazione della vite. Quasi un’enologia eroica.
Gianfranco Quaglia, Direttore di Agromagazine
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